mercoledì 2 gennaio 2013

La corsa al diesel verde dell'Africa neo-colonizzazione o eco-sviluppo?



Imprese dei paesi occidentali coltivano al momento più di tre milioni di ettari di suolo africano con piante adatte a produrre biocarburanti. Un business incentivato dalle norme Ue a favore delle miscele a basso tenore di Co2, dove l'Italia è al secondo posto dopo la Gran Bretagna. Un mercato molto promettente ma anche molto contestato dalle organizzazioni umanitarie

Immaginate la Svizzera interamente ricoperta di piantagioni per alimentare auto e centrali termo-elettriche: 4 milioni di ettari. E' il totale delle terre oggi sfruttate dagli occidentali in Africa per produrre biocarburanti. E' quanto emerge dalla nostra inchiesta.  A guidare la classifica sono gli inglesi, con concessioni record di 1.600.000 ettari, seguiti da italiani, tedeschi, francesi e nord-americani. I contendenti scommettono sulla previsione fatta nel 2004 dal Copernicus Institute di Amsterdam: se il mercato della bioenergia è destinato a crescere, il continente che dispone di più terre coltivabili a basso costo ne diverrà il più grande produttore mondiale. Le stime dell'Agenzia internazionale per l'energia sono promettenti: gli 807 milioni di ettari di vergine suolo africano sono quindici volte più di quanto necessario per soddisfare il fabbisogno di agro-carburanti nel prossimo ventennio.
A trascinare la domanda è soprattutto la legislazione europea. A partire dal 2011 le stazioni di servizio degli Stati membri devono gradualmente aumentare le percentuali di carburante a basso tenore di Co2: bioetanolo per la miscela di benzina e biodiesel per la miscela di gasolio. Il traguardo finale è il dieci per cento entro il 2020. Una soglia che collocherà l'Italia nella top ten europea dei paesi importatori di biocarburanti. Le nuove norme mirano a ridurre sia le emissioni di gas a effetto serra sia la dipendenza dal petrolio sostituendolo con carburanti prodotti da materie vegetali. Il problema è che l'Europa non possiede terra per coltivarne a sufficienza. Secondo l'Institute for European Environmental Policy di Londra, l'ambizioso obiettivo del dieci per cento farà triplicare le importazioni di agro-combustibili. Gli attuali rifornimenti dall'Asia e dall'America Latina non basteranno più. Ecco dunque che l'Africa diventa il nuovo Eldorado del "petrolio verde". Un petrolio estratto principalmente dalla jatropha: una pianta originaria dell'America centrale i cui semi contengono olio con cui si produce diesel ecologico.

Abbiamo mappato una novantina di progetti condotti in oltre 20 paesi africani da 55 aziende, principalmente europee. Circa 2.8 milioni di ettari, oltre due terzi del totale, sono destinati alla coltivazione della jatropha. Pensare che quattro anni fa le proiezioni del WWF prevedevano che nel 2015 sarebbe stata raggiunta una estensione di soli 2 milioni di ettari. Ad accelerare la proliferazione della jatropha è il fatto che il biodiesel rappresenterà in futuro il 71% delle importazioni agro-energitiche UE. Ciò è dovuto alla progressiva "dieselizzazione" dei trasporti su strada. Nel 2020 gli automobilisti italiani da soli bruceranno 972 mila tonnellate di biodiesel in piu', piazzandosi al quarto posto per crescita della domanda dopo Regno Unito, Spagna e Germania.

Diversi investitori in Africa sono già in lista per ottenere la certificazione di sostenibilità ambientale del loro olio di jatropha, secondo quanto richiesto dalla direttiva europea sulle energie rinnovabili. Certificazione alla quale il nostro paese si è adeguato solo lo scorso gennaio. Nove dei dieci investitori italiani da noi individuati scommettono sulla jatropha, eccezion fatta per l'ENI che mira a produrre olio di palma, anch'esso destinato al biodiesel. I concorrenti stranieri hanno già preso di mira in nostro bisognoso paese. "Pensiamo di esportare in Italia, Germania e Norvegia, dove gli acquirenti offrono prezzi più elevati che nel Regno Unito ", afferma Clive Coker, A. D. della società inglese Jatropha Africa.

Il totale in ettari da noi calcolato è semplicemente la punta dell'iceberg. Non tiene infatti conto dei progetti locali e delle vaste concessioni ottenute dalla Cina, assetata di energia rinnovabile per sostenere la sua rapida crescita economica. Alla Repubblica Popolare si aggiungono, inoltre, i colossi agro-energetici brasiliani e malesi: tutti in pole position in Africa e pronti a esportare nel Vecchio continente non appena l'aumento del prezzo del petrolio e l'abolizione dei dazi Ue sui prodotti agricoli locali renderà gli agro-combustibili altamente competitivi. Ad abbattere le barriere doganali sono anche gli Stati Uniti che impongono un obbligo di miscelazione del 15 per cento entro il 2017 e sono presenti in Africa con diverse società e progetti finanziati da Usaid, l'agenzia di cooperazione americana.

L'espansione straniera è incoraggiata da gran parte dei governi africani. Sono già dodici quelli che hanno firmato la carta della cosiddetta "Green Opec". L'Iniziativa promuove la produzione e l'uso locale dei biocarburanti per ridurre le costose importazioni di petrolio. L'obiettivo è generare grossi risparmi da reinvestire nel rafforzamento dell'agricoltura e dell'autosufficienza alimentare. Ottimo ragionamento, in teoria. L'assenza di efficaci politiche pubbliche rischia però di vanificarlo nella pratica. "Nel nostro Paese non ci sono piani per costruire raffinerie per trasformare olio vegetale in biodiesel, né obblighi per gli investitori stranieri di riservare parte della produzione al mercato interno", commenta Jamidu Katima, professore di ingegneria chimica presso la University of Dar es Salaam in Tanzania. Un caso tra tanti che dimostrano come la spinta all'export degli investitori e gli obiettivi di sviluppo locale si trovino in rotta di collisione. Di questo passo l'Africa finirebbe per regalare all'Occidente terre e biocarburanti in cambio di misere royalties intascate da corrotti governanti locali. E perderebbe così l'opportunità di sfamare i suoi oltre 200 milioni di malnutriti.

Secondo un rapporto pubblicato l'anno scorso dalla rete internazionale International Land Coalition, il 66% delle acquisizioni terriere in Africa è finalizzato alla produzione di biocarburanti contro solo il 15% destinato alla produzione di cibo. La superficie complessivamente occupata dalle agro-colture sfiorerebbe i 19 milioni di ettari, secondo lo stesso documento. La sostituzione di colture alimentari con quelle energetiche su scala mondiale ha contribuito alla drastica impennata dei prezzi delle derrate durante le carestie del 2008. Quanto è bastato per esporre l'agro-energia al fuoco incrociato delle organizzazioni umanitarie.

Gli investitori giurano che la jatropha è la risposta alle critiche della società civile. Cresce facilmente nelle zone aride del pianeta, inadatte all'agricoltura. Un quarto di questi terreni sotto-utilizzati si trova in Africa dove la coltura intensiva di jatropha sarebbe quindi possibile senza affamare i poveri. Tuttavia studi della Fao, esperti ed esperienze sul campo dimostrano che la jatropha è meno prodigiosa di quanto proclamato. Richiede più acqua del previsto per sostenere grosse produzioni commerciali votate all'export. Produzioni che spesso prendono il posto di foreste, rendendosi insostenibili dal punto di vista ambientale.

Per salvare la reputazione e contenere i rischi economici, molti investitori puntano su progetti locali in attesa di tempi migliori per l'export. "A seguito della crisi finanziaria, la maggior parte delle grandi monocolture di jatropha ha perso appetibilità e sponsor. L'Ue dovrebbe approfittarne per finanziare maggiormente progetti su scala ridotta nell'ambito del suo programma di sostegno energetico per l'Africa", afferma Meghan Sapp, segretario generale di Partners for Euro-African Green Energy con sede a Bruxelles. "Le piantagioni commerciali estensive privano le comunità rurali delle loro terre", spiega Lorenzo Cotula, ricercatore presso l'International Institute for the Environment and Development di Londra, "invece, la produzione e la vendita autogestita può offrire energia a costi inferiori, nuove opportunità d'impiego e fonti di reddito supplementari agli abitanti delle aree svantaggiate". Nora McKeon, coordinatrice dell'Ong italiana Terra Nuova e dell'iniziativa EuropAfrica, tiene però a precisare: "E' essenziale che anche i piccoli progetti comunitari siano promossi e controllati dai beneficiari locali e non da circuiti commerciali internazionali che inducono asservimento economico".

Fonte : STEFANO VALENTINO Repubblica.it  


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