mercoledì 24 ottobre 2012

Allarme in Madagascar, palme rischiano estinzione



Da loro dipendono alcune delle popolazioni più povere dell'isola

Ravinala "la palma del viaggiatorea"
Più dell'80 per cento delle palme del Madagascar, da cui dipendono alcune popolazioni tra le più povere dell'isola per cibo e materiali da costruzione, sono a minaccia estinzione. E' quanto emerge dalla lista aggiornata delle specie in pericolo pubblicata oggi.
La nuova versione della Lista rossa delle specie sotto minaccia dell'Unione internazionale per la tutela della natura (Uicn), lista di riferimento sulle condizioni di salute delle specie vegetali e animali in tutto il pianeta, è stata aggiornata in occasione della conferenza dell'Onu sulla biodiversità che si svolge fino a venerdì a Hyderabad, in India.
Questo aggiornamento della lista include 65.518 specie, di cui 20.219 sono sotto minaccia di estinzione, secondo l'Uicn, che ha insistito durante la sua presentazione sulla situazione "terrificante" delle palme del Madagascar, un'isola considerata una delle più ricche al mondo in termini di biodiversità. "Le cifre relative alle palme del Madagascar sono davvero terrificanti, soprattutto perché la perdita di palme influenza l'eccezionale biodiversità dell'isola, ma anche la popolazione", ha indicato Jane Smart, direttrice globale del gruppo di conservazione della biodiversità Uicn.

Ecuador: per una nuova identità alimentare



Nel piccolo paese sudamericano, così come in tutti gli altri dove l'agricoltura locale è condizionata dagli oligopoli dell'industria alimentare, è in atto una riscossa incoraggiata da Oxfam Italia 1. C'è in gioco il recupero di antiche colture che generino nuove domande e affranchino dalla dipendenza dai colossi multinazionali. La lotta alle monocolture sui terreni sottratti alle piccole comunità di agricoltori


COTACACHI (Ecuador) - Di notte a Quito, che sta a 2800 metri, il freddo ti investe appena si spalanca la porta automatica dell'aeroporto. Ma se la mattina dopo di buon'ora, assieme all'incaricato di Oxfam Italia 2, señor Jesus, si percorrono un centinaio di chilometri verso nord sulla Panamericana, si arriva nella provincia andina dell'Imbabura, a Cotacachi, dove il sole alle 8 picchia già forte, mentre si arrampica su un cielo di un azzurro accecante e irraggiungibile, senza rendere mai l'aria torrida. Neanche a mezzogiorno.


"Perché siamo qui". Lungo il percorso, Jesus con voce garbata, la sua faccia antica e gentile da indigeno radicato serenamente nella sua terra, anticipa con parole semplici il lavoro di Oxfam Italia 3 qui in Ecuador. Dove i difficili progetti di cooperazione sono ispirati al grande tema della sovranità alimentare. Il diritto cioè dei popoli della Terra, sempre meno rispettato, che ha molto a che fare con il cibo quotidiano, che si vorrebbe salubre, compatibile con le tradizioni, i gusti maturati attraverso millenarie abitudini gastronomiche. Ma soprattutto è un diritto che afferma il potere inalienabile di produrre cibo con i propri sistemi agricoli, senza le imposizioni e le pressioni dell'oligopolio del sistema alimentare, che orientano la qualità, la quantità e il commercio dei prodotti. Pressioni e imposizioni che, qui in Ecuador, sembrano addirittura incoraggiate dal governo di  Rafael Correa, il giovane presidente ecuatoriano che nella campagna elettorale del 2009 aveva invece promesso tutt'altro, e cioè di voler favorire il ritorno all'agricoltura familiare, oltre che il recupero e la tutela delle colture tradizionali.

L'agricoltura, strumento di riscatto. La spiegazione di Jesus anticipa l'introduzione più "tecnica" di Fabio Scotto, direttore dei progetti Oxfam Italia in Ecuador, ex ufficiale della Marina Militare italiana, poi convertito all'agronomia e con ormai una lunga storia alle spalle nella cooperazione. Prima di illustrare sul campo il suo lavoro e quello dei dipendenti locali della Ong nell'area di Cotacachi (guarda il video 4) Scotto si concentra sulla strategia che lo trattiene qui con la sua famiglia da più di cinque anni. In Ecuador, così come in tutti gli altri paesi dove un'agricoltura libera e non eterodiretta potrebbe diventare lo strumento del riscatto economico, il fine ultimo - dice in sostanza - è quello di rigenerare la domanda di prodotti locali e contrastare così le regole della coltivazione e del commercio, imposte dalle multinazionali dell'industria alimentare, che governano le decisioni semi inconsce relative a cosa tutti noi finiamo per mangiare. Un automatismo che fa inzeppare i carrelli dei nostri supermercati di prodotti tutti uguali, ricavati dalle immense monocolture sui terreni sottratti alle piccole comunità agricole in Sud America, Africa e Asia.

La varietà compromessa delle colture. "Da 20 anni a questa parte - racconta Scotto - in tutto il mondo si coltiva e si consuma solo un quarto delle varietà che una volta si producevano. E questo è un danno incalcolabile alla biodiversità che, non dimentichiamolo mai, altro non è che la sola cosa capace di garantire la qualità di ciò che si mangia". Il lavoro fondamentale nel progetto di Oxfam Italia punta dunque ad orientare i sistemi agricoli affinché siano i produtori e i fruitori locali a stabilirlo. Ecco il punto. L'obiettivo è dare priorità ai mercati locali, per scambi più trasparenti, per filiere commerciali corte, redditi equi per chi produce cibo e il diritto a chi consuma del controllo su ciò che mangia. "La sovranità alimentare - dice Scotto - alla fine vuol dire semplicemente rovesciare il mondo. Scardinare le relazioni tra i ricchi e i poveri, vuol dire liberare il Pianeta dalle ineguaglianze, almeno quelle più insopportabili, fra nazioni, popoli, etnie. Vuol dire rispetto per le economie locali, invece ancora letteralmente rase al suolo dai blocchi di potere economico multinazionali.

Le coltivazioni dimenticate. Il clima da queste parti regala a questo Paese una delle sue ricchezze più grandi e uniche. Più del petrolio, che c'è e si trova più a est, nella regione amazonica; più dei giacimenti di oro, argento, ferro, rame, zinco, carbone e ambra. L'habitat andino fa dell'Ecuador il più ricco paese per diversità di specie animali e vegetali, in rapporto alla sua estensione limitata, fra i paesi latino americani. I progetti di cooperazione di Oxfam stanno servendo proprio a riesumare colture locali dimenticate, come la quinoa, il lupino e l'amaranto andino. Si recuperano e si diffondono le conoscenze tradizionali, per dare così agli agricoltori locali la possibilità di aumentare il loro reddito e alla comunità l'esempio di come sia possibile vivere di quello che si riesce a produrre con la terra che si ha sotto i piedi.

Le proprietà dell'amaranto. "L'amaranto andino - dice Scotto - ha un potere nutritivo eccellente, oltre ad essere alla base di alcuni prodotti farmaceutici". L'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti lo ha classificato come l'alimento più completo in natura ed ha proprietà terapeudiche contro l'obesità e osteoporosi. Lo dice anche Carmen Caranqui, una donnina di 57 anni, eletta a mascotte della battaglia di Oxfam in Ecuador. Lei vive nella comunità di Alambuela, a circa 25 chilometri a sud di Cotacachi: "Sono stata fra le prime a coltivare amaranto. La prima volta ho raccolto solo 170 chili. Ne ho venduti gran parte e il resto l'ho usato per cucinare. Oltre al pane, vengono fuori piatti buonissimi: chicha, tortillas, coladas...." Carmen sta continuando a coltivare amaranto, aiutata anche lei dai tecnici di Oxfam Italia, ma oggi in un terreno più grande, acquistato grazie ad un prestito.

Il cibo per affermare identità. Convinti che cambiare si può, qui nella roccaforte di Oxfam Italia a Cotacachi, si guarda al cibo come lo strumento per affermare la l'identità di un popolo, per recuperare saperi antichi legati al territorio, senza sterili e ingenui romanticismi panecologisti. Un lavoro fatto qui, a migliaia di chilometri di distanza, ma forse rivolto a noi, frequentatori di supermercati, per un invito a riconquistare anche qui da questa parte del mondo il diritto ad un cibo, non solo più buono e sano, ma anche più giusto. Badando semplicemente a ciò che si fa quando di fa la spesa.


di CARLO CIAVONI e MARCO PALOMBI

Repubblica.it


martedì 23 ottobre 2012

Nessuno le usa su Internet: ecco le lingue che moriranno




Islandese, lituano e lettone sono già sparite da smartphone e pc. E anche l’italiano se la passa male. Secondo gli esperti, senza investimenti, alla lunga non saranno più parlate neanche nella vita reale.

I computer hanno bisogno di imparare altre lingue oltre l'inglese, oppure la maggior parte delle lingue europee non sopravviverà nell'era digitale. Sono idiomi come l'islandese, il lituano e il lettone che per primi, in un futuro non lontano, rischiano di scomparire dapprima sui monitor dei cellulari e dei tablet e poi di restare confinati alla comunicazione quotidiana.

L'allarme, nella giornata europea delle lingue lo scorso 26 settembre, è stato lanciato da uno studio di MetaNet, un gruppo di 200 tra linguisti e ricercatori di 34 Paesi, finanziato dall'Ue e capace di mettere in luce come in alcune nazioni, tra cui la nostra, le tecnologie della lingua sono insufficienti a salvare un intero patrimonio culturale dall'oblio. Il bulgaro, il greco, l'ungherese e il polacco, insieme a quelle già citate, sono le lingue che rischiano di sparire dall'universo tecnologico nell'immediato, ma anche l'italiano non se la passa bene.

Nicoletta Calzolari, direttrice di ricerca all'Istituto di Ricerca Computazionale del Cnr, ha collaborato per la parte italiana allo studio di MetaNet e spiega: "Perché un computer possa riconoscere una lingua, cosa fondamentale, ad esempio, per usare i comandi vocali su un telefono, oppure ottenere una traduzione accettabile da un motore di ricerca, sono necessari investimenti nelle tecnologie della lingua. Al momento in Europa  e soprattutto in Italia la maggior parte dei Paesi sta investendo poco o niente in questi studi, con risultati che saranno presto disastrosi per l'italiano, il maltese, il catalano e la maggior parte delle lingue eccetto l'inglese".

"In un futuro prossimo - prevede Calzolari - milioni di persone non potranno esprimersi allo stesso modo nella comunicazione quotidiana e in quella digitale, soprattutto in settori come quello economico, commerciale e dell'istruzione. A fronte, insomma, di una società sempre più digitale, non sarà possibile usare la propria lingua per tutta una serie di operazioni che vanno dall'uso delle email al telefono".

 Nel rapporto si denuncia che poco si sta facendo per sostenere la tecnologia di lingue molto diffuse come il tedesco, l'italiano e lo spagnolo, mentre basco e catalano insieme ad altre sono lingue già quasi condannate. "I risultati del nostro studio - è il commento del coordinatore del gruppo MetaNet, Hans Uszkoreit - sono allarmanti. La maggior parte delle lingue europee non è studiata in modo adeguato o è addirittura ignorata dall'universo digitale e per questo non resisterà nel futuro".

A separare la sparizione in rete e quella nella realtà, in atti, potrebbero esserci pochi anni, vista la rapidità con cui le tecnologie digitali sono entrate nella nostra vita. La tecnologia delle lingue è già parte integrante dei gesti quotidiani e se in alcuni casi, come le voci registrate dei servizi clienti al telefono, ci indispettisce, in molti altri ha un potenziale enorme per rendere più semplici operazioni quali orientarsi in città grazie al navigatore satellitare.

La sparizione digitale di lingue parlate da milioni di persone rischia non solo di mettere a rischio la collaborazione tra diversi stati europei, ma soprattutto di lasciare il campo a un'uniformità linguistica che esclude dalla comunicazione digitale la varietà culturale del nostro continente.

CRISTINA NADOTTI
Repubblica.It