‘‘Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di
indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. Noi dobbiamo prepararci a
questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le
nostre università non sono al livello, però ha un futuro nel turismo».
Così a
metà novembre, durante una puntata di «Servizio Pubblico», l’economista Luigi
Zingales delinea-va il radioso futuro del paese. Quanto meno singolare, per uno
che è tra i promotori di un’iniziativa intitolata «Fermare il declino».
Strano poi che un pluridecorato docente dell’Università di Chicago non riconosca che, se tanti giovani vanno all’estero perché qui non hanno opportunità, evidentemente in Italia c’è ancora qualcosa che funziona. Altrettanto evidentemente, è il sistema della formazione. In Germania, Paesi Bassi, Stati Uniti non saprebbero che farsene dei nostri ricercatori, se fossero impreparati o scadenti. Il problema, casomai, è che l’Italia non attira ricercatori stranieri sul «mercato globale dei cervelli», come illustra una ricerca pubblicata in settembre da Ritchie S. King su «IEEE Spectrum». Siamo penultimi, in questo particolare parametro; peggio di noi solo l’India. Per ora.
Eppure, a dispetto della visione di retroguardia di Zingales, la ricerca scientifica italiana è ancora complessivamente al nono posto a livello mondiale per pubblicazioni in una graduatoria stilata da Digital Science, una società «figlia» del Nature Publishing Group. E non se la cava malissimo nemmeno per numero di brevetti, numero di dottori di ricerca e persino spesa complessiva per ricerca e sviluppo. Lo si vede nella grafica pubblicata a p. 44, in un’intera sezione dedicata alla stato della ricerca mondiale.
Allora forse è tempo di riflessioni un po’ più serie e profonde su come sono investiti i fondi in ricerca, prima di affermare – sempre Zingales – che non dobbiamo «buttare i soldi a fondo perduto…». È tempo di affrontare i nodi di un sistema imprenditoriale che non investe in innovazione, avendo campato per quarant’anni della falsa competitività garantita dalle periodiche svalutazioni della lira. O ancora di un sistema creditizio che ha scommesso sul patrimonio immobiliare piuttosto che sul sistema produttivo, come testimonia la preoccupante assenza di venture capitalist e business angel dagli schermi radar del paese. Con la complicità, naturalmente, di una politica avvilente, mai capace di favorire lo scambio di informazione e conoscenza tra enti di ricerca e industrie, di illuminare la strada del trasferimento tecnologico.
Anche in quest’ottica «Le Scienze» si è fatta megafono delle domande – ai candidati alle primarie e alle prossime elezioni politiche di ogni schieramento – emerse dall’iniziativa Dibattito Scienza, nata tra ricercatori e giornalisti scientifici in un gruppo Facebook. Perché c’è chi crede che in questo paese possano ancora nascere i Giulio Natta, i Domenico Marotta, i Felice Ippolito, gli Adriano Olivetti. Perché c’è chi crede che sia un preciso dovere della politica dare risposte solide alla domanda di sviluppo. Perché c’è chi ancora non si rassegna a diventare un paese di camerieri.
Strano poi che un pluridecorato docente dell’Università di Chicago non riconosca che, se tanti giovani vanno all’estero perché qui non hanno opportunità, evidentemente in Italia c’è ancora qualcosa che funziona. Altrettanto evidentemente, è il sistema della formazione. In Germania, Paesi Bassi, Stati Uniti non saprebbero che farsene dei nostri ricercatori, se fossero impreparati o scadenti. Il problema, casomai, è che l’Italia non attira ricercatori stranieri sul «mercato globale dei cervelli», come illustra una ricerca pubblicata in settembre da Ritchie S. King su «IEEE Spectrum». Siamo penultimi, in questo particolare parametro; peggio di noi solo l’India. Per ora.
Eppure, a dispetto della visione di retroguardia di Zingales, la ricerca scientifica italiana è ancora complessivamente al nono posto a livello mondiale per pubblicazioni in una graduatoria stilata da Digital Science, una società «figlia» del Nature Publishing Group. E non se la cava malissimo nemmeno per numero di brevetti, numero di dottori di ricerca e persino spesa complessiva per ricerca e sviluppo. Lo si vede nella grafica pubblicata a p. 44, in un’intera sezione dedicata alla stato della ricerca mondiale.
Allora forse è tempo di riflessioni un po’ più serie e profonde su come sono investiti i fondi in ricerca, prima di affermare – sempre Zingales – che non dobbiamo «buttare i soldi a fondo perduto…». È tempo di affrontare i nodi di un sistema imprenditoriale che non investe in innovazione, avendo campato per quarant’anni della falsa competitività garantita dalle periodiche svalutazioni della lira. O ancora di un sistema creditizio che ha scommesso sul patrimonio immobiliare piuttosto che sul sistema produttivo, come testimonia la preoccupante assenza di venture capitalist e business angel dagli schermi radar del paese. Con la complicità, naturalmente, di una politica avvilente, mai capace di favorire lo scambio di informazione e conoscenza tra enti di ricerca e industrie, di illuminare la strada del trasferimento tecnologico.
Anche in quest’ottica «Le Scienze» si è fatta megafono delle domande – ai candidati alle primarie e alle prossime elezioni politiche di ogni schieramento – emerse dall’iniziativa Dibattito Scienza, nata tra ricercatori e giornalisti scientifici in un gruppo Facebook. Perché c’è chi crede che in questo paese possano ancora nascere i Giulio Natta, i Domenico Marotta, i Felice Ippolito, gli Adriano Olivetti. Perché c’è chi crede che sia un preciso dovere della politica dare risposte solide alla domanda di sviluppo. Perché c’è chi ancora non si rassegna a diventare un paese di camerieri.
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