lunedì 5 marzo 2012

Penso che un sogno così…


Ma il vero festival di Sanremo, quello di cui in passato parlavano tutti perché faceva cultura, dov’è andato a finire? 

Ho fatto un sogno. Ero seduta in prima fila al Teatro Ariston di Sanremo perché avevo pagato il canone Rai prima di tutti gli italiani, orgogliosa di una tv pubblica che non deve dipendere dal mercato pubblicitario e che può esprimersi liberamente senza chiedere il permesso alla casta-politica (e s’intenda la parola “casta” come sostantivo).
Al mio fianco sedevano semplici italiani fieri di essere a Sanremo come me: non erano del mondo dello spettacolo né di quello del calcio; non c’erano fotografi di professione né dirigenti. Il presentatore era vestito in smoking; la valletta aveva un viso color dei gigli, come le fanciulle cantate dallo Stilnovo. Nonostante non avesse scollature, né spacchi avanzava “gentile” e sensuale sulle scale del palco.
Il Festival della canzone italiana iniziava, appunto, con una canzone-bandiera dell’Italia, Azzurro, un nobile aggettivo, non una parolaccia. Proseguiva con i cantautori in gara che facevano vibrare le corde del cuore degli spettatori prima che quelle delle loro chitarre e che parlavano d’amore, anche senza nominarlo, perché lo sapevano descrivere in modo talmente mirabile da non aver bisogno di ripetere suoni già uditi migliaia di volte. I loro accordi erano nuovi e del tutto originali, anche senza il copyright e la SIAE. E non cantavano solo con musica e parole, ma anche con gesti e “accoramenti”.
Le loro parole si libravano nell’aria e davano sollievo agli italiani che, dopo una giornata di lavoro, si riunivano nelle case di chi aveva la televisione per vedere, oltre che per sentire come facevano abitualmente per radio, il festival del mese di san Valentino. La bellezza salverà il mondo, dicevano, e ci credevano sul serio, al punto che lo spettacolo veniva trasmesso in tutte le altre “stelline” che rappresentano i Paesi europei, come vanto nazionale.
Poi, ad un certo punto, è arrivato uno che si molleggiava di qua e di là. Non parlava, ma sapeva cantare più di tutti gli altri. E con la sua voce parlava d’amore alla stregua di Mina e Battisti; lasciava Dio ai preti e il piano regolatore ai politici.
Tra una canzone e l’altra c’era la satira di costume sull’Italia, sulla diversità tra uomo e donna, e via beffe e motto arguti. Senza sentire nemmeno un’espressione volgare, ho riso talmente “a crepapelle” che mi sono svegliata.
Ho letto i giornali e tutti parlavano di un Festival mai visto dove Celentano era definito “profeta decadente”; il voto della giuria non funzionava; la valletta, a letto con la cervicale, era stata sostituita da altre; Luca e Paolo avevano lasciato il posto a “I soliti idioti”…
Mi sono chiesta: ma il vero festival di Sanremo, quello di cui in passato parlavano tutti perché faceva cultura, dov’è andato a finire? Mi sono riaddormentata e ho preferito vedere il vincitore del festival dei miei sogni. Lì ha vinto il miglior cantante dell’anno: non quello più televotato, ma quello che nel giudizio univa tutti, dal critico musicale all’ultimo spettatore. Non c’erano cantanti-amici, perché la musica era per tutti. 
 Olga Sanese, da L'Ottimista (L'Ottimista / ItalPlanet News)

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