L'Ecologist
in edicola si fa due domande cruciali: «Le aree protette per la fauna selvatica
funzionano davvero? Possono i parchi nazionali e le aree marine protette
salvaguardare la fauna selvatica in pericolo contro le crescenti pressioni
della crescita della popolazione e dei cambiamenti climatici?» e per rispondere
parte da molto lontano, dalla più antica area protetta del mondo, che non è
Yellowstone negli Usa, come moltissimi credono, ma la montagna sacra di Bogd
Khan (nella foto), vicino alla capitale della Mongolia Ulan Bator, designata
come Parco nazionale fino dal 1778, ma salvaguardata addirittura dal XIII
secolo.
Ecologist
sottolinea che un editto imperiale del XVIII secolo vietava ai mortali da
dissacrare quel regno divino, dove erano limitate le costruzioni e vietata la
caccia. Il primo caso in cui i riti sacri si incontrano con un
proto-ambientalismo in uno Stato strutturato, cosa quindi ben diversa dai
tabù delle tribù animiste. Purtroppo il Bogd Khan Uul National Park è oggi
aggredito dal turismo e dall'inquinamento di Ulan Bator.
Da allora
molto cammino è stato fatto e nel mondo attualmente ci sono circa 112.000 aree
protette, che però secondo Ecologist difendono veramente solo il 6% delle terre
emerse (le cifre ufficiali superano il 10%) e l'1% degli oceani. Nel 2011 uno
studio canadese ha confermato che la biodiversità è in calo in tutto il
mondo nonostante l'aumento delle aeree protette, che non solo dovrebbero
essere più numerose, ma soprattutto più grandi e con meno interferenze
antropiche. Un bel problema, visto che la popolazione mondiale destinata a
crescere fino a 9 miliardi entro il 2050, comportando un impatto ancora
maggiore su specie ed habitat ed accrescendo le difficoltà di proteggerli. Lo
studio ha identificato l'urgente necessità di trovare altre soluzioni per
fermare la perdita di biodiversità, e la principale è quella di "
stabilizzare" il numero di esseri umani sul pianeta e le nostre
esigenze ecologiche sulla biodiversità.
Un altro
problema è che la fauna selvatica non conosce i confini tracciati dall'uomo:
«Gli uccelli in migrazione, gli orsi alla ricerca di cibo o i banchi di pesci
perdono ogni protezione che hanno una volta che attraversano una linea
invisibile - si legge su Ecologist - Questi pericoli possono
iniziare letteralmente sulla soglia di casa. L'International union for
conservation of nature and natural resources sottolinea: «In molti casi
[le aree protette] sono solo isole di protezione in ampie zone degradate
dagli esseri umani». Un degrado che è spesso il frutto di un altro frutto
avvelenato della sovrappopolazione: la povertà, che può portare gli agricoltori
a radere al suolo le foreste o a guerre che costringono intere popolazioni a
spostarsi in habitat ecologicamente sensibili, causando la distruzione della
fauna selvatica.
Ma anche nel
ricco mondo industrializzato le cose non funzionano bene. Ecologist fa
l'esempio della Gran Bretagna, dove «Le aree protette non sono sempre
efficaci». Un rapporto del 2010 criticava le riserve naturali e parchi
nazionali inglesi perché non proteggevano efficacemente le specie,
«Essendo mal gestiti, troppo piccoli, troppo accessibili al pubblico e non
interconnessi a sufficienza». Gli autori, alcuni tra i maggiori esperti di
fauna britannici, raccomandavano al governo di istituire 12 grandi
"‘ecological restoration zones" con un investimento di circa 1
miliardo di sterline.
Ma la crisi
economica (e l'Italia ne sa qualcosa) porta i governi a tagliare i fondi
alle aree protette, per non parlare dei continui tentativi politici di
attenuare le forme di salvaguardia nei Parchi. Luke Dollar, uno scienziato
della Duke University che studia la fossa, il più grande carnivoro del
Madagascar, pensa che abbia poco senso ampliare le aree protette se non si
aumentano anche le capacità e i fondi per gestirle: «Si è investito molto nella
strategia e pianificazione di progetti come i "corridoi". Purtroppo,
fino a che non verrà acquisita e mantenuta una solida comprensione delle
zone già designate per la protezione, stiamo mettendo il carro davanti ai buoi.
Negli ultimi 10 anni o giù di lì, il Madagascar ha quasi triplicato la
superficie delle aree designate per la protezione. Non ha però fatto seguito
una magica triplicazione di enti capaci e manager esperti, nonché una
moltiplicazione analoga del finanziamento - spiega su Ecoilogist - e i
"parchi di carta", aree protette senza un' intensa presenza fisica,
sono in via di estinzione come aree protette. Avranno successo solo se gli
ambientalisti e la popolazione locale lavoreranno insieme e saranno ugualmente
coinvolti per raggiungere un equilibrio tra utilizzo delle risorse e
conservazione».
Naturalmente
i successi delle aree protette non mancano: la scorsa settimana sono nati 18
moriglioni del Madagascar, l'anatra più a rischio del mondo. In Montana, da
quando negli anni '90 sono state istituite le Grizzly Bear Management Areas, le
popolazioni dei grandi carnivori americani sono aumentate, grazie al divieto di
caccia ed a severi limiti per i mezzi motorizzati.
Ecologist cita
l'Australia come "cattivo esempio": con più di 9.000 parchi nazionali
e riserve marine, la natura è protetta ancora in maniera inadeguata ed oltre
l'80% delle 1.320 specie sono minacciate di estinzione. Secondo un rapporto
dell'Università del Queensland del 2010, «il 12% delle specie esiste solo fuori
delle aree protette, mentre un quinto delle specie in pericolo critico non ha
alcun tipo di protezione formale. Se le aree protette venissero aumentate (dal
12 al 18% del territorio australiano) e meglio posizionate e gestite, tutte le
specie minacciate potrebbe essere garantite».
Sono
soprattutto le Aree marine protette (Amp) a dare risultati concreti. John
Cigliano, un marine conservation ecologist del Cedar Crest College della
Pennsylvania, partecipa al progetto per salvare la conchiglia regina nella
Sapodilla Cayes Marine Reserve della barriera corallina del Belize e spiega che
il numero di questi rari molluschi è cresciuto molto da quando, nel 1996,
è stata istituita la riserva marina.
Ma nonostante
sia evidente che, come ha confermato il summit mondiale sulla biodiversità di
Nagoya, bisogna proteggere al più presto il 10% degli oceani per poi
arrivare almeno al 20%, le Amp si estendono su meno dell'1% dei mari del mondo
e secondo Cigliano solo una parte di queste Amp sono davvero efficaci, dato che
molte non attuano le forme di protezione previste: «La maggior parte delle Amp
sono in acque poco profonde, dobbiamo fare Amp in mare aperto. E dobbiamo fare
in modo che tutti i tipi di habitat siano protetti in modo che effettivamente
ci sia una protezione di tali habitat a tempo indeterminato. E'
importante collegare le aree marine protette con delle reti, perché le specie
marine sono mobili, sia per soggetti adulti, come i tonni e balene, che
per le larve planctoniche».
Le aree
marine protette possono essere vittime del loro stesso successo: quando le
popolazioni di una particolare specie si riprendono, l'attività di pesca tende
concentrarsi nelle aree verso cui gravitano i pesci al di fuori della riserva.
Inoltre le aree dove la pesca è completamente vietata (le zone "A"
italiane) sono quasi sempre troppo piccole, «Per questo è necessario un
piano di gestione completo ed integrato che includa la protezione dell'area
circostante - dice Cigliano - Le Amp devono essere adeguatamente
progettate e vanno fissati specifici obiettivi socio-economico e di
conservazione. Se tali obiettivi non sono rispettati, le cose devono
cambiare».
Glyn Davies,
direttore dei programmi del Wwf Gran Bretagna sottolinea che i benefici delle
aree protette possono variare nel tempo, a causa di forze esterne: «Un decennio
di conflitto interno in Nepal, per esempio, ha portato ad un calo nei grandi
numeri dei mammiferi sia all'interno che all'esterno riserve. Le aree protette
ben gestite vanno a beneficio delle persone e l'ambiente. Di recente ho
visitato il Chitwan National Park nelle "praterie" del Terai del
Nepal, dove sono stati fatti degli sforzi per ricostituire le popolazioni
di grandi mammiferi rari, tigri e rinoceronti in particolare. La concentrazione
di queste specie in via di estinzione incoraggia i turisti internazionali a
visitarle, con un fatturato condiviso direttamente con le comunità che
circondano il parco. Ho anche visto miglioramenti fantastici sia nella fauna
selvatica che per i mezzi di sussistenza nelle "conservancies" nel
nord della Namibia e ho visitato parchi in Colombia e in Brasile, dove le
comunità indigene hanno richiesto le aree protette per salvaguardare i propri
valori e modi di vita».
Ma nessun
parco nazionale o area protetta può difendersi da sola dal cambiamento
climatico. Secondo il rapporto "China's 40 panda reserves only
protect half of its 1.000 or so bears" pubblicato a marzo
dall'International Journal of Ecology, entro i prossimi 70 anni il 60%
dell'habitat del panda gigante andrà perso a causa del global warming. Ma Luke
Dollar dice che questa è solo «Una distrazione dato l'attuale tasso di perdita
delle foreste mondiali. Se non mettiamo un freno alle cause profonde
dell'attuale e continua perdita di foreste a livello mondiale e non tentiamo di
arginare direttamente tali tassi di depauperamento, non ci potrà essere una
parvenza significativa delle nostre attuali foreste globali su cui puntare,
qualunque sia il consenso sul clima che potrà emergere».
Fonte: Greenreport
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