sabato 28 aprile 2012

I parchi nazionali e le Aree marine protette funzionano davvero?


L'Ecologist in edicola si fa due domande cruciali: «Le aree protette per la fauna selvatica funzionano davvero? Possono i parchi nazionali e le aree marine protette salvaguardare la fauna selvatica in pericolo contro le crescenti pressioni della crescita della popolazione e dei cambiamenti climatici?» e per rispondere parte da molto lontano, dalla più antica area protetta del mondo, che non è Yellowstone negli Usa, come moltissimi credono, ma la montagna sacra di Bogd Khan (nella foto), vicino alla capitale della Mongolia Ulan Bator, designata come Parco nazionale fino dal 1778, ma salvaguardata addirittura dal XIII secolo.
Ecologist sottolinea che un editto imperiale del XVIII secolo vietava ai mortali da dissacrare quel regno divino, dove erano limitate le costruzioni e vietata la caccia. Il primo caso in cui i riti sacri si incontrano con un proto-ambientalismo in uno Stato strutturato, cosa quindi ben  diversa dai tabù delle tribù animiste. Purtroppo il Bogd Khan Uul National Park è oggi aggredito dal turismo e dall'inquinamento di Ulan Bator.
Da allora molto cammino è stato fatto e nel mondo attualmente ci sono circa 112.000 aree protette, che però secondo Ecologist difendono veramente solo il 6% delle terre emerse (le cifre ufficiali superano il 10%) e l'1% degli oceani. Nel 2011 uno studio canadese ha confermato che la biodiversità è in calo in tutto il  mondo nonostante l'aumento delle aeree protette, che non solo dovrebbero essere più numerose, ma soprattutto più grandi e con meno interferenze antropiche. Un bel problema, visto che la popolazione mondiale destinata a crescere fino a 9 miliardi entro il 2050, comportando un  impatto ancora maggiore su specie ed habitat ed accrescendo le difficoltà di proteggerli. Lo studio ha identificato  l'urgente necessità di trovare altre soluzioni per fermare la perdita di biodiversità, e la principale è quella di " stabilizzare"  il numero di esseri umani sul pianeta e le nostre esigenze ecologiche sulla biodiversità. 
Un altro problema è che la fauna selvatica non conosce i confini tracciati dall'uomo: «Gli uccelli in migrazione, gli orsi alla ricerca di cibo o i banchi di pesci perdono ogni protezione che hanno una volta che attraversano una linea invisibile - si legge  su Ecologist -  Questi pericoli possono iniziare letteralmente sulla soglia di casa. L'International union for conservation of nature and natural resources sottolinea: «In molti casi  [le aree protette] sono solo isole di protezione in ampie zone degradate dagli esseri umani». Un degrado che è spesso il frutto di un altro frutto avvelenato della sovrappopolazione: la povertà, che può portare gli agricoltori a radere al suolo le foreste o a guerre che costringono intere popolazioni a spostarsi in habitat ecologicamente sensibili, causando la distruzione della fauna selvatica. 
Ma anche nel ricco mondo industrializzato le cose non funzionano bene. Ecologist fa l'esempio della Gran Bretagna, dove «Le aree protette non sono sempre efficaci». Un rapporto del  2010 criticava le riserve naturali e parchi nazionali inglesi perché non proteggevano efficacemente  le specie, «Essendo mal gestiti, troppo piccoli, troppo accessibili al pubblico e non interconnessi a sufficienza». Gli autori, alcuni tra i maggiori esperti di fauna britannici, raccomandavano al governo di istituire 12 grandi "‘ecological restoration zones" con un investimento di circa 1 miliardo di sterline. 
Ma la crisi economica  (e l'Italia ne sa qualcosa) porta i governi a tagliare i fondi alle aree protette, per non parlare dei continui tentativi politici di attenuare le forme di salvaguardia nei Parchi. Luke Dollar, uno scienziato della Duke University che studia la fossa, il più grande carnivoro del Madagascar, pensa che abbia poco senso ampliare le aree protette se non si aumentano anche le capacità e i fondi per gestirle: «Si è investito molto nella strategia e pianificazione di progetti come i "corridoi". Purtroppo, fino a che non verrà  acquisita e mantenuta una solida comprensione delle zone già designate per la protezione, stiamo mettendo il carro davanti ai buoi. Negli ultimi 10  anni o giù di lì, il Madagascar ha quasi triplicato la superficie delle aree designate per la protezione. Non ha però fatto seguito una magica triplicazione di enti capaci e manager esperti, nonché una moltiplicazione analoga del finanziamento - spiega su Ecoilogist -  e i "parchi di carta", aree protette senza un' intensa presenza fisica, sono in via di estinzione come aree protette. Avranno successo solo se gli ambientalisti e la popolazione locale lavoreranno insieme e saranno ugualmente coinvolti per raggiungere un equilibrio tra utilizzo delle risorse e conservazione».
Naturalmente i successi delle aree protette non mancano: la scorsa settimana sono nati 18 moriglioni del Madagascar, l'anatra più a rischio del mondo. In Montana, da quando negli anni '90 sono state istituite le Grizzly Bear Management Areas, le popolazioni dei grandi carnivori americani sono aumentate, grazie al divieto di caccia ed a severi limiti per i mezzi motorizzati. 
Ecologist cita l'Australia come "cattivo  esempio": con più di 9.000 parchi nazionali e riserve marine, la natura è protetta ancora in maniera inadeguata ed oltre l'80% delle 1.320 specie sono minacciate di estinzione. Secondo un rapporto dell'Università del Queensland del 2010, «il 12% delle specie esiste solo fuori delle aree protette, mentre un quinto delle specie in pericolo critico non ha alcun tipo di protezione formale. Se le aree protette venissero aumentate (dal 12 al 18% del territorio australiano) e meglio posizionate e gestite, tutte le specie minacciate potrebbe essere garantite».
Sono soprattutto le Aree marine protette (Amp) a dare risultati concreti. John Cigliano, un marine conservation ecologist del Cedar Crest College della Pennsylvania, partecipa al progetto per salvare la conchiglia regina nella Sapodilla Cayes Marine Reserve della barriera corallina del Belize e spiega che  il numero di questi rari molluschi è cresciuto molto da quando, nel 1996, è stata istituita la riserva marina. 
Ma nonostante sia evidente che, come ha confermato il summit mondiale sulla biodiversità di  Nagoya, bisogna proteggere al più presto il 10% degli oceani per poi arrivare almeno al 20%, le Amp si estendono su meno dell'1% dei mari del mondo e secondo Cigliano solo una parte di queste Amp sono davvero efficaci, dato che molte non attuano le forme di protezione previste: «La maggior parte delle Amp sono in acque poco profonde, dobbiamo fare Amp in mare aperto. E dobbiamo fare in modo che tutti i tipi di habitat siano protetti in modo che effettivamente ci sia una protezione di tali habitat a tempo indeterminato.  E' importante collegare le aree marine protette con delle reti, perché le specie marine sono mobili, sia per  soggetti adulti, come i tonni e balene, che per le larve planctoniche». 
Le aree marine protette possono essere vittime del loro stesso successo: quando le popolazioni di una particolare specie si riprendono, l'attività di pesca tende concentrarsi nelle aree verso cui gravitano i pesci al di fuori della riserva. Inoltre le aree dove la pesca è completamente vietata (le zone "A" italiane) sono quasi sempre troppo piccole, «Per questo  è necessario un piano di gestione completo ed integrato che includa la protezione dell'area circostante -  dice Cigliano - Le Amp devono essere adeguatamente progettate e vanno fissati specifici obiettivi  socio-economico e  di conservazione. Se tali obiettivi non sono rispettati, le cose devono cambiare». 
Glyn Davies, direttore dei programmi del Wwf Gran Bretagna sottolinea che i benefici delle aree protette possono variare nel tempo, a causa di forze esterne: «Un decennio di conflitto interno in Nepal, per esempio, ha portato ad un calo nei grandi numeri dei mammiferi sia all'interno che all'esterno riserve. Le aree protette ben gestite vanno a beneficio delle persone e l'ambiente. Di recente ho visitato il Chitwan National Park nelle "praterie" del Terai del Nepal, dove sono stati  fatti degli sforzi per ricostituire le popolazioni di grandi mammiferi rari, tigri e rinoceronti in particolare. La concentrazione di queste specie in via di estinzione incoraggia i turisti internazionali a visitarle, con un fatturato condiviso  direttamente con le comunità che circondano il parco. Ho anche visto miglioramenti fantastici sia nella fauna selvatica che per i mezzi di sussistenza nelle "conservancies" nel nord della Namibia e ho visitato parchi in Colombia e in Brasile, dove le comunità indigene hanno richiesto le aree protette per salvaguardare i propri valori e modi di vita». 
Ma nessun parco nazionale o area protetta può difendersi da sola dal cambiamento climatico. Secondo il rapporto  "China's 40 panda reserves only protect half of its 1.000 or so bears" pubblicato a marzo dall'International Journal of Ecology, entro i prossimi 70 anni il 60% dell'habitat del panda gigante andrà perso a causa del global warming. Ma Luke Dollar dice che questa è solo «Una distrazione dato l'attuale tasso di perdita delle foreste mondiali. Se non mettiamo un freno alle cause profonde dell'attuale e continua perdita di foreste a livello mondiale e non tentiamo di arginare direttamente tali tassi di depauperamento, non ci potrà essere una parvenza significativa delle nostre attuali foreste globali su cui puntare, qualunque sia il consenso sul clima che potrà emergere». 
Fonte: Greenreport

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