mercoledì 13 luglio 2011

La testimonianza di Lydia di Antsirabe

Questa è la bella testimonianza di Lydia, una giovane mamma di Antsirabe in cerca di lavoro, che ha sottoscritto un contratto come collaboratrice domestica in Libano ma, come molte altre donne del Madagascar, del Pakistan o delle Filippine, ha capito ben presto di trovarsi in una situazione di quasi schiavitù e solo grazie all’impegno di Jean François e dei suoi amici è riuscita a tornare a casa e a inventarsi un nuovo futuro.
Abbiamo rivolto a Lydia alcune domande per sapere qualcosa di più sulla sua esperienza di lavoro in Libano. Eravamo un po’ titubanti all’inizio, per il timore che il nostro potesse sembrare solo un atteggiamento indiscreto, ma Lydia ha compreso bene i nostri sentimenti e ha accettato di rispondere con molto entusiasmo.

Vi ringrazio per il vostro interesse e per il vostro affetto. Volete conoscere la storia della mia vita personale e la ragione per la quale sono arrivata a questo mio racconto. Sono pronta a raccontarvi e a farvi conoscere tutto quello che volete sapere. Sono contenta anche perché se qualcuno pensa che quello che ho fatto è una follia, credo che il destino sia così.

Come sei stata contattata dall’agenzia e da dove nasce l’idea di partire?
Era da tempo che avevo un’amica che si occupava di mandare delle persone a lavorare nelle Isole Seychelles. Anch’io volevo andarci, perché stavo cercando un lavoro e inoltre non sopportavo più una storia d’amore che stavo vivendo qui in Madagascar. E’ stata quest’ amica che mi ha indirizzato verso l’Agenzia che invia le donne a lavorare in Libano. Ero tristissima e ho accettato di partire. Era un venerdì e ci siamo procurati i documenti necessari. Il giorno dopo, sabato, hanno mandato i miei documenti via internet in Libano. Mi sono stupita perché il lunedì stesso mi hanno avvisato che ero stata accettata e che dovevo partire la settimana seguente. Il venerdì mi hanno chiamata da Antananarivo, mi hanno detto di non portare dei bagagli pesanti, solo abiti leggeri perché il resto sarebbe stato fornito dall’Agenzia. Sono andata a Tana la domenica per firmare il contratto. Non me l’hanno spiegato e non l’ho letto. Mi hanno detto che partivo solo per lavorare. Ho portato comunque un po’ di roba con me.Il lunedì verso le quattro del mattino siamo andati all’aeroporto, abbiamo firmato altre lettere e pratiche aeroportuali. Eravamo in sei in partenza per il Libano. Non ci conoscevamo, era il nostro primo contatto tra noi. L’aereo è decollato alle sei del mattino.

Com’è stato il viaggio?

Eravamo sedute tutte e sei le une accanto alle altre. Eravamo tutte zitte e abbiamo pianto per una mezzora. Alla fine, stanche di piangere, ci siamo addormentate. Era ancora buio. Quando ci hanno offerto da mangiare non avevamo molto appetito.Dopo ho chiesto alle due ragazze vicino a me la ragione per la quale avevano deciso di partire per il Libano. Mi hanno raccontato la loro storia. Oltre allo stato di povertà nella quale vivevamo in Madagascar, tutte avevamo un problema comune: vicende di cuore, amore e disperazione come nel mio caso. Per loro il problema era il marito, che ha altre donne e si rivolge alla moglie con parole offensive quando la vede rimanere a casa senza un lavoro. Tante di noi volevano fare qualcosa nella loro vita.Una aveva un bambino di quattro mesi. Suo marito e i suoceri l’hanno cacciata di casa dicendo che non avevano più bisogno di lei perché non serviva a niente.Quando siamo arrivate a Johannesburg erano le dieci del mattino. Non conoscevamo l’aeroporto, non sapevamo come funziona né dove dovevamo andare. Nessuna delle mie compagne conosceva il francese, tantomeno l’inglese. Ho dovuto dirigere il gruppo e ho cominciato a chiedere cosa fare e dove andare. I sudafricani dell’aereoporto, secondo il mio parere, non ci hanno accolto bene. Non ci rispondevano. Stavo ferma lì a chiedere delle informazioni. Alla fine una donna ci ha mostrato una freccetta e ci ha detto che dovevamo seguire la segnalazione. Arrivate al posto giusto, abbiamo chiesto dov’era il gate di imbarco per Addis Abeba. Sapevamo che il nostro volo da Johannesburg passava da Addis Abeba per terminare a Beirut. Di nuovo nessuno ci dava informazioni giuste, nessuno sembrava sapere niente. Ci hanno detto di aspettare ancora. Siamo rimaste là, era già mezzogiorno. Non sapevamo dove andare né cosa fare. Le mie compagne erano sedute tranquillamente mentre io cercavo di avere le informazioni necessarie. Alla fine si è avvicinato un sudafricano molto alto e ci ha chiesto perché eravamo sempre lì ad aspettare. Gliel’ho spiegato, poi lui ci ha accompagnato fino all’imbarco e ci ha spiegato cosa fare. Ci sentivamo più sicure. Poi abbiamo pianto di nuovo tutte insieme. Ci siamo guardate e abbiamo cominciato a sorridere. Ci siamo anche chieste perché piangevamo. Ridevamo con le lacrime agli occhi. Poi abbiamo cominciato a raccontarci le nostre storie personali. Nell’ascoltarci, ci sembrava di conoscerci da tempo. Non abbiamo mangiato né bevuto, non siamo neanche andate al bagno perché non sapevamo niente di niente di un aeroporto.Abbiamo preso il volo alle diciotto da Johannesburg per Addis Abeba, dopo una giornata persa all’aeroporto di Johannesburg. Una volta ad Addis Abeba, abbiamo preso subito il collegamento per Beirut.

Cosa è successo quando sei arrivata a Beirut?
A Beirut ci hanno fatto riempire una scheda e ci hanno fatto entrare in una grande aula. Eravamo ventisei ragazze di diverse nazionalità. Ogni gruppo parlava la sua lingua. Non ci capivamo. Non potevamo uscire dalla stanza per nessun motivo. Eravamo sotto il controllo della polizia libanese, chiuse a chiave fino al momento in cui i nostri rispettivi padroni non fossero venuti a prenderci.
Ogni volta che una ragazza partiva con i suoi datori di lavoro, ci facevamo un cenno di congedo con le mani.Poi è toccato a me. Sono uscita. Erano venuti a cercarmi un uomo e una donna. Prima mi hanno portato in un’agenzia per presentarmi, poi direttamente in ospedale per fare delle analisi e una radiografia. Quindi mi hanno fatto una vaccinazione contro la tubercolosi e finalmente siamo andati a casa loro.Il primo giorno del mio arrivo mi hanno fatto riposare. Mi hanno dato il tempo di dormire. Mi hanno detto che ero stanca del viaggio e che dopo la vaccinazione dovevo riposarmi. Il secondo giorno mi hanno portato dai loro familiari vicino al confine con Israele, dove hanno fatto una festa per ricevermi. C’erano anche altre tre ragazze malgasce che lavoravano con altri membri della loro famiglia e che erano arrivate prima di me. Era il tempo di Ramadan. Loro sono musulmani.

Quali erano i tuoi compiti nella casa dove lavoravi?
Quattro giorni dopo il mio arrivo siamo rientrati a Beirut e mi hanno mostrato il lavoro da fare. Mi alzavo alle sei del mattino per cominciare il lavoro casalingo. Dovevo lavare tutte le stanze: si comincia dalla terrazza, il corridoio, la cucina, le stanze dove giocano i bambini, il bagno, la doccia, poi il magazzino, l’ufficio del padrone di casa, la camera da letto dei padroni, la loro doccia e il bagno. Per finire si lava il salone. Poi ogni tanto pulivo anche la cucina e lavavo tutti i vetri. Mi alzavo sempre presto per pulire e lavare tutto quello che potevo. Alle otto sospendevo il mio lavoro di pulizie per preparare il caffè e la colazione al padrone di casa. Continuavo poi il lavoro fino a che non si alzavano i bambini e preparavo la colazione anche a loro, mettendo a bollire il latte o quello che serviva, a loro scelta. Poi ricominciavo a pulire.
Tutte le stanze erano da lavare con molta acqua e da asciugare benissimo, i mobili erano da spostare per pulire meglio nei punti nascosti e poi erano da rimettere al loro posto.Cominciavo a pulire alle sei del mattino e lavoravo fino alle sette di sera. Non mi fermavo neanche un momento. Poi stiravo i vestiti. Andavo a letto a mezzanotte. Di solito uscivano la sera per andare a far visita ai loro parenti. Se nessuno veniva a trovarli erano loro ad uscire. Ogni sera era così. Poi c’erano sempre delle cose da lavare.

Come ti hanno trattato?
Mi hanno lasciato fare il mio lavoro e mi hanno lasciato mangiare tutto quello che volevo. Alcune cose non erano del tutto chiare per me. La signora non poteva interferire in quello che facevo. Se doveva rivolgermi la parola a proposito del lavoro o perché c’era qualcosa che non le piaceva, doveva prima parlare col marito, quasi a chiedergli il permesso. Quando andavamo a fare la spesa mi lasciava sempre da sola con lui e lei andava in un altro corridoio del supermercato. Toccava a me e a suo marito scegliere le cose da acquistare. Cucinavo con lui e, quando non era al lavoro, mi aiutava in alcuni lavori di casa. Nelle riunioni di famiglia, quando erano presenti tutte le altre donne di servizio malgasce, dovevo mangiare separatamente da loro. Tutti gli uomini, fratelli del padrone di casa, mi trattavano bene, ma le loro mogli invece mi manifestavano comportamenti strani. Non ci capivo niente. Mi hanno promesso tante cose. Mi hanno promesso anche una casa e una macchina.

C’erano dei divieti che dovevi rispettare?
Non era permesso uscire di casa. Quando uscivano mi chiudevano a chiave. Mi hanno tolto il passaporto il primo giorno che sono arrivata. Non mi era permesso portare vestiti senza maniche, né gonne che mostrassero le gambe. Non potevo indirizzare la parola ad altri uomini al di fuori del padrone di casa.

Come sei rientrata in Madagascar?
Non sapevo perché le mie mani e i miei piedi si erano gonfiati e mi davano un dolore terribile. Mi chiedevo se era a causa del lavoro duro, della stanchezza o a causa di un’allergia ai detergenti usati per pulire la casa. Jean François ed io all’inizio ci chiamavamo spesso al telefono. Non gli ho nascosto quello che stavo vivendo a Beirut. E’ stato lui a dirmi di rientrare in Madagascar e lui che ha cercato i mezzi per farmi rientrare. E’ stata una lotta dura. Alla fine dal Libano non c’ era neanche più permesso comunicare per telefono. François è andato all’Agenzia che mi ha assunta, ma hanno rifiutato di metterlo in contatto con me.Gli hanno detto di trovare 4.500 Usd in poco tempo per farmi uscire da Beirut altrimenti il mio caso era perso e non mi avrebbero fatto più uscire dal Libano. Non sapevo come avrebbe fatto François per trovare quel denaro. Lui doveva pagare. (ndt: François è riuscito a raccogliere la somma necessaria anche grazie ad un gruppo di amici italiani capitanati da Gianluigi) Quando sono rientrata in Madagascar non mi hanno dato il mio stipendio. Sono rientrata dopo un mese di lavoro senza nessun compenso. L’Agenzia mi ha restituito solo 20 Usd per le pratiche aeroportuali.

Quando e come ti è venuta l’idea di mettere in piedi il gruppo delle merende? A chi ti sei rivolta?
Eravamo in due a cominciare il lavoro delle merende e delle frittelle. Era solo una prova. Ci siamo detti: ripartiamo dalla nostra infanzia, quando eravamo piccole e vendevamo delle cose per guadagnare qualche spicciolo per noi. Perché non facciamo la stessa cosa ora che siamo grandi? Quando abbiamo visto che andava bene, allora abbiamo chiamato altre persone per unirsi a noi. Non ho chiesto a nessuno come si fa a portare avanti un lavoro di questo tipo, ho cominciato subito. François ci ha visto lavorare, è stato lui a dirci di organizzarci meglio quando ne abbiamo parlato. E’ stato lui a propormi di chiamare altre persone ed io ho chiamato le ragazze che lavoravano con me quando ero dipendente di una multinazionale.Ho chiamato le mie ex colleghe e ho mostrato loro come si fanno le merende e le frittelle. Abbiamo cominciato così.

Cos’è che ti soddisfa di più di questa attività?
Mi soddisfa moltissimo sentire dai colleghi che tramite questo lavoro la loro vita è cambiata. Hanno potuto acquistare da mangiare, acquistare dei vestiti, soddisfare alcuni dei loro bisogni di ogni giorno. Il nostro luogo di lavoro è diventato un luogo di condivisione. Mangiamo insieme a pranzo. Mia mamma prepara da mangiare per tutti noi. Condividiamo anche i problemi familiari, parlandone.

Quanti siete a lavorare?
Siamo in nove a lavorare insieme. Uno ha smesso di lavorare una settimana fa. Ha detto che il lavoro è troppo duro e si stanca moltissimo ad andare a vendere i prodotti in bicicletta. Un altro ha avuto un incidente stradale fuori dell’orario di lavoro. E’ stato ricoverato all’ospedale. Ci siamo ritrovati senza quelli che fanno la vendita da un giorno all’altro.

Come si svolge la vostra giornata?
Arriviamo al posto di lavoro alle 7,30. Alle 8 Mamisoa e Tiana escono per vendere i prodotti. Rientrano alle tre o alle quattro del pomeriggio. Tutti quelli che rimangono al laboratorio per lavorare vanno a trasportare i prodotti nelle scuole, poi altri friggono, fanno le buste, impastano la farina. Ognuno conosce il suo lavoro e lo fa con piacere.

Cosa pensa la tua famiglia di questo lavoro?
Mio padre e mia madre sono contentissimi. Mio padre partecipa al nostro lavoro. Dal mattino alla sera sta con il gruppo e aiuta. E’ pensionato quindi ci lavora volentieri. Si occupa soprattutto delle arachidi e le frigge pure.Mia madre cuoce per il gruppo. Anche lei si diverte a stare con noi.Io, da parte mia, sono contentissima e sto cercando ancora delle cose da fare o da inventare. Sì, è vero che ci sono tante difficoltà da superare però mi sento sempre pronta ad andare avanti.
Vivere è una lotta continua, bisogna essere pronti a fronteggiare le sorprese della vita.

da Osservatorio Iraq, di Carlo M.Miele:
Attualmente - stando alle stime più accreditate - in Libano vi sono 200 mila lavoratrici straniere impegnate come domestiche. Per lo più provengono da Filippine, Sri Lanka, Etiopia e Madagascar.
Di recente Human Rights Watch ha denunciato la carente legislazione sul lavoro in vigore in Libano, che consente di commettere impunemente abusi e violenze sugli impiegati immigrati. Secondo l'organizzazione internazionale, in media un lavoratore straniero a settimana si suicida in Libano a causa delle inumane condizioni di lavoro cui è sottoposto, tra cui orari di lavoro massacranti, mancato pagamento di contributi e restrizioni alla libertà.www.osservatorioiraq.it

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