martedì 30 agosto 2011

Esporando lo Tsaratanana

Una spedizione erpetologica organizzata dal Museo di Scienze Naturali di Torino, capitanata da Franco Andreone, a cui si uniscono Miguel Vences per il Museo di Bonn ed il sottoscritto Fabio Mattioli per l’Università di Genova, sbarca in Madagascar. Obiettivo raggiungere la vetta più alta dell’Isola, il monte Maromokotra. La montagna appartiene al massiccio di Tsaratanana, parte del quale rientra nella riserva Naturale Integrale n.4 di Tsaratanana. Scopo della spedizione è quello di studiare l’erpetofauna del massiccio. L’asprezza del territorio, che lo rende difficilmente accessibile, è evidente già dalle mappe della regione, studiate nella capitale Antananarivo, in attesa che le autorità malgasce concedano i permessi per le ricerche. All’arrivo all’aeroporto di Nosy Be, prima tappa dell’avvicinamento, le prime avvisaglie di sfortuna. I bagagli, 14 colli con tutto il materiale necessario per la sopravvivenza nella foresta e per le ricerche, non vengono scaricati. Blocchiamo l’aereo quasi in fase di decollo e fra le urla degli addetti all’aeroporto ci introduciamo nella stiva per scaricare i bagagli. Alcuni zaini mancano all’appello, forse rimasti nella capitale, forse in viaggio per chi sa dove. Siamo costretti ad un paio di giorni di sosta per comprare parte del materiale perso in aereo, ne approfittiamo per cercare animali che sull’isola abbondano. Il camaleonte pantera è sicuramente il rettile più comune e sgargiante con i suoi colori turchese, rosso, giallo e verde, tanto che sugli alberi sembra un frutto o un fiore. In barca ci spostiamo sulla terraferma, e raggiungiamo Ambanja, che è l’ultimo paese in cui è possibile acquistare le provviste. Da qui a bordo di un improbabile pick-up, ci addentriamo per una impervia strada di montagna. Il peso dei nostri bagagli e la strada fangosa ci costringono più volte a scendere per spingere il mezzo impantanato. Arrivati ad Antisirasira la strada si interrompe sulle rive del fiume Sambirano, il più grande della regione. Lo guadiamo a bordo di piroghe scavate nel legno e proseguiamo a piedi con dei carretti trainati da zebù su cui sistemiamo il carico. Due giorni di marcie forzate di quaranta chilometri ci conducono a Beangona. Questo è l’ultimo villaggio abitato che incontreremo. Sono poche case fatte di paglia e di fango con tetti in lamiera, dove i bambini non hanno mai visto un bianco e fuggono piangendo alla nostra vista. Solo gli adulti si ricordano delle altre spedizioni passate di li, una francese del 1966 scortata dai legionari e quella dell’Acquario di Genova del 1997, condotta da Giovanni Schimmenti e Riccardo Jesu. Qui assoldiamo i portatori e veniamo raggiunti da due “guardia parco”, che ci impongolo la loro presenza durante la spedizione. Questo intoppo manderà a monte le nostre speranze di raggiungere la la vetta; infatti oltre a voler essere pagate ed essere due bocche in più da sfamare, le due guardie necessitano di altrettanti portatori per la loro tenda e il riso supplementare. È un cane che si morde la coda perchè ogni persona in più necessita di una quantità di riso e materiale che richiede la presenza di un altro portatore, che a sua volta necessita di altro cibo. Valutiamo, quindi di non avere a disposizione sufficiente riso, ne soldi per coprire tutti i giorni di avvicinamento alla vetta.
Decidiamo di ripercorrere il cammino fatto dalla spedizione dell’Acquario doi Genova del 1997 e magari spingerci un po’ oltre. La prima parte del percorso avviene fra lembi di territorio disboscato, guadando numerosi fiumi a piedi. Iniziamo poi, un’ascesa su colline piuttosto alte, che ben presto si tramutano in piccole montagne. Il “tavy”, cioè la pratica del taglia e brucia, sembra essere di moda anche in questi remoti territori. Avanziamo infatti su pendii erbosi e sulle montagne attorno a noi non ci sono che sporadici alberi isolati, sotto i quali facciamo sosta per ripararci dal sole rovente, che, dal mattino fino all’ora di pranzo non ci dà tregua. La salita avviene lungo i crinali, i malgasci non conoscono altri sentieri e procedono con i loro fardelli sulla testa o legati a mo’ di bilanciere su un palo che portano in spalla.
Tutti i giorni verso l’una ci fermiamo per montare il campo, infatti nel pomeriggio puntuali arrivano gli acquazzoni, che durano sino a sera tarda. L’amara sorpresa l’abbiamo quando incontriamo i resti di una capanna, che sembra quella descritta da Jesu e Schimmenti, tutto bruciato. Anche la piccola foresta di Andampy poco più avanti, attraversata da un rigagnolo e meta del nostro primo campo, porta i segni di un recente incendio; rinveniamo comunque alcuni esemplari di anfibi, camaleonti, e serpenti che, assieme a nuove piante tentano di ricolonizzare la piccola valletta. Saliamo ulteriormente spingendoci sempre più all’interno del massiccio; finalmente i paesaggi cominciano a popolarsi di alberi, che si fanno sempre più fitti e coperti di licheni ed epifide, fino a diventare foreste intricate in cui muoversi con gli zaini in spalla diventa un problema.
Ci accampiamo alla confluenza di due ruscelli dove rimarremo per nove giorni. La ricerca degli animali ci occupa le nottate, alla mattina li classifichiamo, per dormire durante i piovosi pomeriggi. Viviamo in un mondo di fango, dove raramente il sole riesce ad incunearsi fra le chiome degli alberi per arrivare sul terreno. I vestiti sono ormai tutti fradici e i ricambi non riescono ad asciugare per l’elevata umidità. Decidiamo quindi di rientrare con il nostro carico di informazioni, di studi e con la scoperta di qualche specie nuova. Il cammino del ritorno serve pero’ a farci riflettere sul fatto che a nulla serve lo sforzo per conoscere e studiare specie animali e loro habitat, sino a che non saremo in grado di fornire un’alternativa alle popolazioni locali che non le costringa a bruciare e tagliare le foreste per sopravvivere. Sino ad allora descriveremo delle specie nuove, solo per poi commentarne l’estinzione.
Fabio Mattioli
Spedizione effettuata a gennaio 2000.
Fonte: “I quaderni di Berenice”

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