di Oreste Paliotti Ciro, i valori del popolo malgascio, l’impatto con un Occidente che sembra aver smarrito le sue radici cristiane. |
Da quanti anni non rivedevo Ciro? Esattamente non avrei saputo dirlo. Troppi in ogni caso. Basta dire che in trent’anni, e cioè da quando lui fa il medico nel continente africano, ci saremo rivisti sì e no cinque-sei volte. Trent’anni di cui sei trascorsi in Camerun e il resto ad Ambatondrazaka, città del Madagascar nord orientale a circa 150 chilometri dalla capitale. Trent’anni trascorsi a curare ammalati nello spirito della fraternità tipico dei Focolari.
In occasione di una sua venuta a Napoli gli rivolgo qualche domanda sull’esperienza che va facendo, non senza un richiamo ad un passato comune. Verso la metà degli anni Sessanta, infatti, Ciro è stato uno dei primi animatori, nella città partenopea, del nascente Movimento Gen, la seconda generazione dei Focolari.
«Figlio della generazione del ’68 – ricorda –, ero lanciatissimo nella nuova rivoluzione che Chiara Lubich, la fondatrice dei Focolari, mi proponeva: “No al capitalismo, no al comunismo, il cristianesimo ci piace!”. Soprattutto – e di ciò non la ringrazierò mai abbastanza –, lei mi proponeva un ideale o, meglio, una persona: Gesù che sulla croce grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Non un Dio glorioso, trionfante, ma un Dio sconfitto, macerato dal dubbio. Ai miei giovani anni questo “tipo” dava le vertigini e me ne innamorai al punto di seguirlo e di lasciare tutto per lui».
Da allora, Ciro ha vissuto costruendo là dove è andato la comunità del focolare, accettando la sfida dell’inculturazione. È il caso del popolo malgascio, in mezzo al quale ora vive.
«Un popolo dai tratti unici – spiega – nel concerto africano, con una cultura diversa, essendo di origine asiatica. Lo sforzo è sempre quello di coglierne gli aspetti più positivi, enucleandoli dal guscio di incrostazioni pseudo-culturali che spesso li ricoprono nascondendoli allo sguardo.
«Ti faccio qualche esempio, partendo dal senso del bello. Quante case vedo intorno dissestate e simili a stamberghe, segno di un’incuria dovuta forse più a mancanza di mezzi che a trascuratezza! Eppure sui davanzali e sui balconi si possono notare vasi di gerani o altri fiori. In realtà sull’altopiano malgascio è nota comune la cura per i fiori.
«Un altro aspetto, sempre legato al bello, è la passione per il canto. Appena arrivato in Madagascar, ho sentito totalmente estranei ai miei gusti il senso del ritmo e della danza. Tutto era per me, europeo, estremamente lento. In compenso, però, i malgasci cantavano così bene da ricordarmi il bel canto italiano; anzi in certe melodie ritrovavo la nostalgia e le modulazioni, simili ad onde, proprie del canto napoletano. Non per niente i malgasci sono di origini marinare melanesiane ed avrebbero conservato nella loro memoria “ancestrale” il ricordo del mare.
«E poi il senso dell’ospitalità, anche se talvolta lo si ritrova mascherato dietro l’interesse (Atéro ka alào = do per avere), interesse dovuto all’attuale situazione di “miseria”. Non bisogna dimenticare infatti che questo popolo è stato troppo spesso “ferito” dalle prepotenze dei potenti e da una struttura sociale discriminante, fatta di caste e relazioni sociali asfissianti ed obbliganti.
«Nel fondo, invece, il malgascio è ospitale, direi “gioioso” nella sua ospitalità. Quando lo straniero (vahiny) è invitato per un pranzo o in altra occasione, gli si fa sempre un regalo, accompagnato da un kabary,discorso d’occasione per significare l’onore avuto nell’accoglierlo.
«Nell’offrirti poi qualcosa da mangiare, lo condivide con te: più che per assicurarti che non c’è veleno, come retaggio di un remoto passato, per significare – io penso – che colui che offre vuole “essere con te” nel dono che ti fa».
Ciro accenna quindi al fihavanana, altro valore imprescindibile per chiunque si avvicini a quel mondo e a quella cultura.Di che si tratta?
«Il fihavanana – e mi limito qui solo all’interpretazione di tipo “sociale” – è una visione della vita e del mondo, che ingloba il rapporto con Dio, gli antenati, gli uomini e la natura: ed è certamente un elemento di socialità e di relazione. Io non vivo da solo, ma anche con altre persone. Ne derivano alcuni aspetti, come il rispetto verso gli altri, verso gli anziani. Il saluto, ad esempio, ha tutto un cerimoniale: “Come va?”. “Va bene”. “E la salute?”. “Bene grazie”. “Ci sono novità?”. “No, ma sto andando al mercato”…
«Altro valore è l’umiltà, di cui è sintomatico il chiedere scusa prima di cominciare a parlare in pubblico, il non essere diretti nelle domande e nelle risposte, lasciando all’altro la possibilità di esprimersi…».
Vengo così a sapere che il malgascio quasi risponde quel che l’altro vuol sentirsi rispondere e chiede quello che l’altro può rispondere senza essere indelicati. «Rispondere, ad esempio, tsy fantatro, angamba, asa, tsy aiko(letteralmente “non so”, “forse”, “non capisco”) – precisa Ciro – è un modo evasivo (ma non ipocrita) per non ferire nessuno con una risposta troppo immediata, che non ammette sfumature.
«Lo stesso moramora (“piano piano”, letteralmente) non è tanto segno di pigrizia o di indolenza, quanto di prudenza e circospezione, prima di parlare e di agire, per essere sicuri che quello che si dice o si fa non ferirà nessuno.
«Infine la delicatezza, quasi una gracilità psico-fisica, che rende i malgasci molto sensibili, il che si riscontra anche negli uomini, che hanno attenzioni molto “materne” verso i propri figli».
Mi viene spontaneo chiedere all’amico cosa è stato invece per lui, a distanza di tempo, ritornare qui in Italia, nella sua città.
«Ho provato un vero shock nel trovarmi a camminare in mezzo ad una società dove Dio sembra assente e dove ho avvertito un vuoto di pensiero e di vita. La gente è interessata piuttosto all’enalotto e al suo premio del momento, alla villeggiatura, alla campagna acquisti del campionato di calcio, alle tante cose di una vita fondata sull’avere e sull’apparire.
«Sintomatiche le riflessioni di amici, che un tempo avrei definito “non credenti”: “La gente non pensa e non ha voglia di pensare”, “un tempo ci si divideva tra chi credeva e chi non credeva, ora tra pochi che pensano e la maggioranza che non pensa”, “la nostra società non è più cristiana”, e così via.
«Come reazione a questo impatto, sono dovuto riandare al più profondo di me stesso per attingere alla parte più vera di me: “Dio è qui, ancor più di quando ho lasciato l’Italia trent’anni fa”.
«Ho ritrovato così il Dio della mia giovinezza, che avevo certo scelto in un impeto di generosità e con un pizzico di follia di innamorato.
«Con una differenza, però, tra allora ed ora, differenza che cercherò di renderti con due immagini.
«Nel ’68 ero come uno o che cammina su una fune – la fune dell’esistenza, tesa tra passato e futuro – tenendo lo sguardo fisso in avanti, verso colui che era il mio tutto, la mia speranza, la mia meta.
«Oggi, la fune su cui avanzo non ha più punti di riferimento: è come se fossi sospeso tra il niente da cui sono emerso ed il niente verso cui mi avvio. Sarà perché questo Cristo che, nel mondo attorno a me, grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” sta prendendo vitalmente possesso di me? Così però posso essere punto di riferimento per tanti che, sospesi nel vuoto dell’esistenza, cercano una casa, un rifugio, un appiglio.
«Questo è ciò che ho potuto spesso osservare intorno a me in questa mia permanenza a Napoli nelle persone che “stanno bene in salute”.
«Viceversa, sembra quasi che per trovare l’autenticità dell’uomo e della sua umanità bisogna accostarsi – ed in punta di piedi – al mistero di dolore che ospita ogni ammalato serio o terminale.
«A questo riguardo ho pensato ad un carissimo amico lasciato in Madagascar, a Tovo, colpito da un ictus: ora non potrà più animare le nostre riunioni con la sua fisarmonica, non potrà più dedicarsi a quel compito prezioso di colmare i vuoti in seno alla comunità, alla città, alla Chiesa locale.
«Ora lui è solo un cuore che ama. Tocca a noi “sani” prendere il suo posto e colmare questo vuoto con più responsabilità, non tanto dandoci da fare, quanto “essendo” un di più d’amore per tutti.
«Questo forse significa vivere con più intensità la Parola di Dio, ritornare a “fare esperienze”, a comunicarle, rifondando su di esse la comunità. Ci vuole forse più silenzio di parole e più vita della Parola. Solo così sarà Gesù in me e tra noi ad “evangelizzare” e a portare la sua libertà dalla schiavitù di certe tradizioni, anche le più radicate»
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