martedì 8 marzo 2011

L’ingerenza è sempre sbagliata?

E’ molto sottile la linea di confine tra l’egoismo che c’impone stili di vita basati sulla ricerca del piacere, nostro o al massimo di chi rientra nel novero dei nostri familiari, e una condotta di vita basata sul donare il proprio tempo e le proprie energie agli altri, il famoso prossimo. A fronte di una maggioranza di persone che, una volta catapultate in Madagascar e messe a contatto con le miserie umane, reagiscono chiudendosi in se stesse e allontanando “l’altro da noi”, soprattutto se bisognoso, vi è un certo numero di persone che fanno fatica a resistere alla tentazione di dare una mano, un aiuto, un consiglio, intervenendo a mettere ordine in ciò che ai nostri occhi appare disordine, incuria, rischio e cattiva condotta. La questione della nostra ingerenza, di noi che siamo portatori di una determinata cultura, nella vita dei malgasci, va analizzata attentamente e valutata caso per caso. Il più delle volte si è tentati di lasciar correre, di voltarsi dall’altra parte, trovando mille giustificazioni per non intervenire, ma in alcuni casi, guardando gli eventi da un osservatorio privilegiato, sappiamo che certe cose non vanno fatte, anzi, vanno evitate il più possibile. C’è bisogno, però, che qualcuno glielo dica. Non essendo stati a scuola e non avendo avuto una maestra che glielo abbia spiegato, ci corre l’obbligo di dirlo chiaramente, che certi comportamenti andrebbero evitati. Se non io, chi? Se non ora, quando? Farò alcuni esempi per capirci, ma prima vorrei dire che non c’è solo il problema psicologico a monte, nella nostra testa, se intervenire con il nostro modo occidentale di vedere le cose o meno, ma anche a valle, nel momento in cui ci rapportiamo con i malgasci e non sappiamo come reagiranno. Potrebbero esserci grati e accettare volentieri i nostri consigli, oppure potrebbero reagire con rabbia, come se stessimo attentando alle loro tradizioni e alla loro cultura. A volte – e lo vediamo anche in Italia – persone incolte sono pervicacemente attaccate alle loro abitudini e tradizioni, perché non si sono ancora accorte che si tratta di superstizioni. Se in Italia almeno abbiamo la possibilità di spiegarci usando lo stesso codice linguistico, in Madagascar c’è anche questa ulteriore difficoltà: che il più delle volte non possiamo comunicare come vorremmo. Se, per fare un primo esempio, vediamo dei bambini che, la domenica, fanno il bagno nelle canalette che circondano i campi, e sui cui argini, punteggiati di immondizie, pascolano e defecano gli zebù, con l’acqua a lento scorrimento di un bel color marrone cioccolata, ci verrebbe naturale ordinare a quei bambini di uscire immediatamente, onde evitare di prendersi tifo e colera. Ma le loro mamme, nella peggiore delle ipotesi, potrebbero prenderla come un’indebita ingerenza di un “vazaha” prepotente o, nella migliore, come la bizzarria di uno straniero “adala adala” , cioè scemo. Forse dovremmo considerare che quei bambini fin da piccoli entrano in contatto con agenti patogeni che gli irrobustiscono le difese immunitarie e questo diminuisce il rischio che si prendano malattie infettive. Se poi consideriamo che non esistono piscine pubbliche e che gli unici luoghi dove sia possibile contrastare le torride temperature tropicali sono i fiumi e i laghi, ordinargli di venir fuori dall’acqua è un po’ una forzatura e forse non capirebbero che è per il loro bene. Bisognerebbe spiegarglielo. Ciò non di meno, le statistiche parlano chiaro e, oltre all’elevata mortalità infantile, nella zona dove mi capita di assistere a tali spettacoli sono molto numerosi i casi di febbre tifoidea e colera, non solo fra i bambini, ma anche fra gli adulti. E allora, qual è la cosa giusta da fare? Lasciare che la natura faccia il suo corso e astenerci dall’intervenire o imporre regole di comportamento per loro incomprensibili e sicuramente impopolari? Dovrei mettermi addosso un camice bianco e girare i villaggi dando consigli? Funzionerebbe? Per inciso, la Nestlé faceva indossare camici bianchi a donne africane che venivano sguinzagliate nei villaggi a vendere il latte in polvere, incuranti del fatto che, mescolandolo con acqua contaminata, quel latte portava alla morte di migliaia di bambini. Oltre al fatto che, essendo carente di sostanze nutritive e sostituendo il latte materno, provocava malnutrizione, con conseguenti successivi decessi fra la popolazione infantile. Ma queste sono logiche consumistiche e capitalistiche che non ci appartengono e che sono palesemente riprovevoli. Altro esempio. Le levatrici spesso tagliano il cordone ombelicale ai neonati con forbici non sterilizzate, provocando mortali infezioni. Basterebbe che qualcuno dicesse loro di far bollire le forbici e i coltelli che intendono usare per tale incombenza. Non mi sembra un’ingerenza nelle loro abitudini e tradizioni. Fino a un paio di secoli fa, anche noi in Europa non ci preoccupavamo delle infezioni da sala operatoria. L’asepsi fece diminuire drasticamente le morti infantili e da ospedale, benché anche al giorno d’oggi le malattie iatrogene siano fra le principali cause di morte in Occidente. Su una cosa vado sul sicuro e so di ottenere l’approvazione degli adulti. E’ quando vedo bambini piccoli maneggiare lamette e coltelli. Se da una parte mi stupisco dell’incoscienza dei genitori che glielo lasciano fare, dall’altra, nel momento in cui richiamo l’attenzione degli adulti presenti, prontamente questi intervengono, perché capiscono la pericolosità intrinseca dell’attrezzo. A volte, se non ci sono adulti nelle vicinanze, intervengo io stesso e sequestro l’oggetto tagliente. Una volta mi è capitato di sequestrare una piccola tartaruga a un bambino, in presenza della balia, ma la madre Karana non gradì, perché una tartaruga non è un coltello e poco importa se il bambino la fa cadere, la ribalta o la maltratta in altro modo. Questo mio intervento mi costò la casa che avevo preso in affitto e da cui dovetti andarmene per incompatibilità ambientale, benché marito e cognato della donna avessero compreso le motivazioni del mio gesto: i Karana conoscono le abitudini di noi bianchi e sanno che a volte abbiamo un occhio di riguardo anche per gli animali. Mia moglie di etnia Tanalana mi ha raccontato che ad Antoby c’è un manicomio in cui i malati vengono legati al letto e, se hanno un attacco di schizofrenia, c’è chi comincia a colpirli con la Bibbia in testa, gridando: “Belzebù, esci da questo corpo!”. A gestire tale nosocomio sono alcune suore protestanti, vestite di bianco e chiamate “piandri”. Devono aver preso alla lettera i miracoli di Gesù, quando guariva gli indemoniati, e intendono emulare Nostro Signore, dimenticando che, magari, lui aveva qualche marcia in più e non aveva bisogno di picchiare in testa quei poveretti, ma gli bastavano le parole. A quelle suore luterane, malgasce, le parole evidentemente non bastano. Ora io mi chiedo: ci sarà stato un pastore protestante, bianco, che le ha nominate suore. Qualche inglese o tedesco andrà in visita pastorale ogni tanto in quella congregazione e in quell’ospedale? E, se non ci vanno i pastori protestanti, ci andrà mai qualche funzionario governativo a controllare lo stato dei pazienti? Se qualche vazaha spiegasse a quelle suore infermiere che dare la Bibbia in testa agli schizofrenici o agli epilettici non è la terapia più adatta, commetterebbe ingerenza nelle loro tradizioni? E se lo facesse un malgascio? Un’altra suora malgascia, ma cattolica stavolta, quella suor Clemenza di cui ho già parlato, mi ha raccontato che, all’ospedale di Tulear, quando deve eliminare le medicine scadute, bisogna che il giardiniere le bruci in un falò, poiché non basterebbe seppellirle in una buca o, meno ancora, gettarle in una discarica a cielo aperto, perché i mendicanti andrebbero a recuperarle per venderle come nuove, oppure i bambini le mangerebbero scambiandole per caramelle. Anche in questo caso, se un vazaha spiegasse a queste persone che le medicine scadute conviene buttarle via, commetterebbe un’ingerenza? E se glielo spiegasse suor Clemenza, che è di etnia Merina? Già fanno male quelle non scadute, figurarsi quelle in cui i principi attivi sono scomparsi o alterati. Se resistere alla tentazione di educare i malgasci adulti è difficile, resistere a quella di educare i bambini è ancora più difficile e spesso mi scopro a pensare che noi bianchi, invece di mandargli tanti soldi, che vengono poi trasformati in grossi e inutili fuoristrada, dovremmo mandargli educatori e maestri, sempre che gli insegnanti indigeni siano d’accordo e il ministero dell’educazione lo autorizzi. Magari i francesi già lo fanno, essendo una loro ex colonia, ma in quattro anni da che vado giù regolarmente, non ho mai avuto l’onore di incontrarne uno. Una volta sono entrato in una classe delle elementari. Era piuttosto spoglia, con una sola carta geografica appesa alla parete, ma c’era un manifesto dell’UNICEF che invitava i bambini a lavarsi le mani, soprattutto dopo essere stati al bagno e prima di mettersi a tavola. Un manifesto è già qualcosa e non viene vissuto come un’ingerenza straniera, ma se glielo dice una persona in carne ed ossa, una persona a cui viene riconosciuta l’autorità morale per farlo, è molto meglio. Un insegnante è nella posizione speciale di poter indirizzare i pensieri e i comportamenti dei discenti e quindi nessuno dovrebbe sollevare obiezioni se chiede ai bambini di non picchiarsi tra loro, ovvero di controllare i moti naturali di aggressività, che sono, fino a una certa età, una forma di linguaggio nonché il loro modo spontaneo di interagire. Tutti lo capirebbero. Ma se lo stesso insegnante chiedesse ai bambini malgasci di non tirare sassi ai cani e, con la fionda, agli uccelli, avrebbe probabilmente poco consenso, dato che ad essere vittime di tale aggressività non sarebbero altri bambini, ma semplici animali, cioè entità avulse dal contesto della società civile. Non solo gli adulti non darebbero il proprio consenso a quell’ipotetico insegnante, ma gli dimostrerebbero anche aperta ostilità, poiché le ferree leggi dell’umanità (e qui non sto più parlando dei soli malgasci), stabiliscono che gli animali siano a nostra disposizione sottoforma di cibo, vestiario e, non ultimo, divertimento. Infatti, può anche essere divertente tirare sassi ai cani. Dunque, mi trovo a dover constatare che, adesso come adesso, nell’attuale fase storica in cui l’umanità si trova, dire ai bambini di lavarsi le mani non è un’ingerenza, mentre dir loro di non usare le fionde e di rispettare cani e uccelli, lo è. Qualcuno mi spiega l’inghippo? Quali sono le basi teoriche che hanno portato a questa differenziazione di vedute e di giudizio?
Lasciando da parte i bambini, vorrei parlare di Paosy, una ragazza di 32 anni affetta da epilessia. Paosy non è più tra noi. Il suo Grande Male, di cui era affetta dall’età di quindici anni, le ha stroncato la giovane vita. Viveva a Besely nord, un villaggio di capanne costruite su sabbia, in mezzo ai fichi d’India, senza elettricità e servizi igienici, con un unico pozzo fuori dal centro abitato. Sempre affollato di bambini e giovani donne. Un giorno, mentre suo marito era al lavoro nei campi, ebbe una violenta crisi. Non c’era nessuno, nelle vicinanze, che la togliesse prontamente dal fuoco acceso, su cui era finita con il braccio destro. Quando rientrò in sé, si ritrovò con il braccio semicarbonizzato e i suoi familiari la portarono dall’”Ombiasy”, lo stregone, le cui erbe e impacchi a nulla servirono per fermare l’infezione. Anzi. Dopo una quindicina di giorni, con il braccio in cancrena, fu portata a Ejeda, dove un dottore vazaha non poté far altro che amputarle il braccio. Le disgrazie di Paosy non erano finite. Dopo qualche tempo, il primogenito, che era anche lui affetto dallo stesso male, si rovesciò addosso una pentola d’acqua bollente, evento non raro neanche nelle nostre contrade, e morì in seguito alle ustioni. Quando anche Paosy morì, c’era già un altro figlio in tenera età, di cui dovrà occuparsi il marito, probabilmente con l’aiuto di qualche donna di famiglia. Secondo le statistiche, c’è una probabilità del 20 % che i pazienti cronici muoiano di epilessia, a causa della progressiva necrosi delle cellule neuronali, che si verifica ad ogni crisi, oppure, ma in casi rari, perché rimangono soffocati dalla loro stessa lingua. Nel mondo ci sono circa 43 milioni di epilettici, l’85 % dei quali nei paesi del Terzo Mondo. Da noi non si sente mai parlare di qualcuno morto di epilessia, ma in Madagascar succede. Forse, anche qui, se ci fosse maggiore conoscenza fra i familiari su come intervenire con un primo soccorso, molte disgrazie si potrebbero evitare. E ho il sospetto che anche la morte di Roger Mahavison, avvenuta nel gennaio scorso, si sarebbe potuta evitare. Come è possibile che un padre di famiglia, di 43 anni, con moglie e due bambini, muoia a causa di una crisi epilettica? Roger era fratello di Nina, un’amica di mia moglie, e gli facevamo spesso visita. Viveva a Tulear, ma il suo corpo è stato portato a Saint-Augustin, suo villaggio d’origine. I malgasci sembrano prestare molta cura ai morti e trascurare i vivi. Si sacrificano gli “Omby” (zebù) in onore dei “Razana”, gli antenati, nel mentre si tralascia di prestare le debite cure a chi ne avrebbe bisogno. Io ci vedo qualcosa di sbagliato, ma naturalmente mi guardo bene dal farglielo notare, perché con i “Razana” non si scherza, essendo la cosa più importante nella vita e nella società dei malgasci. Però, qualche miglioramento dell’igiene non guasterebbe e nessuno gli dice di rinunciare alla loro cultura, nemmeno io che sto dalla parte degli zebù. Al massimo lo penso o lo scrivo sul sito dell’AIM. Di altro tenore è la storia di Alphonsine, figlia di Alphonse. Mentre Paosy e Roger, affetti da epilessia, li ho conosciuti, Alfonsina non l’ho mai conosciuta di persona. Me ne ha solo parlato mia moglie. Alfonsina è una brava madre di famiglia, che tira su quattro bambini, con l’aiuto del marito. Ma, un brutto giorno, un occhio comincia ad appannarsi: cataratta. Tira avanti con un occhio solo, per un certo periodo, fino a quando anche l’altro occhio si ricopre di una patina biancastra e Alfonsina diventa completamente cieca. E lo è tuttora. E tuttora alleva con molti sacrifici i suoi quattro bambini. Mi chiedo: in Madagascar ci sono i bisturi laser, cioè le attrezzature necessarie per togliere le cataratte? E ci sono chirurghi capaci di farlo? In alternativa, quanto costerebbe portare Alfonsina in Italia (o in Francia) per sottoporla a un’operazione tutto sommato semplice come l’asportazione delle cataratte? Domanda laica e un po’ polemica: se invece di costruire così tante chiese e moschee, di diverse denominazioni religiose, costruissimo ospedali e sale operatorie, non sarebbe meglio? E se invece di trasformare gli aiuti umanitari in lussuosi fuoristrada, costruissimo università e formassimo chirurghi preparati, non sarebbe più saggio? Non sarebbe la cosa giusta da fare, aumentare il numero di medici e insegnanti, piuttosto che quello di preti, pastori e imam? Queste sono domande ingenue, lo so, ma intanto Alfonsina è ancora lì che aspetta, avvolta nelle tenebre perenni. Ci vorrebbe un miracolo. Ci vorrebbe che il presidente mantenesse la parola. “Venderò l’aereo privato del mio predecessore, costato 60 milioni di dollari, e darò il ricavato ai poveri”, disse, al suo insediamento, Andry Rajaolina. Ecco, signor presidente, c’è una giovane donna di Tulear, di nome Alfonsina, che vorrebbe riacquistare la vista e rivedere i suoi figli. E non servirebbero neanche tutti i sessanta milioni di dollari, ma basterebbe molto meno!
Freeanimals

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