venerdì 18 febbraio 2011

SERPENTI DEL MADAGASCAR

Una sera passeggiavo tranquillamente con Nanà al mio fianco, cercando di evitare le enormi pozzanghere che sono caratteristiche delle strade di Tamatave dopo la pioggia, quando vidi davanti a me un serpentello zigzagante. Mi volto per dire a Nanà: “Guarda com’è carino!”, che lei era già a una trentina di metri, ferma ad aspettarmi, oltre un’enorme pozzanghera. Neanche Carl Lewis alle Olimpiadi di Los Angeles dell’ottantaquattro, avrebbe potuto fare di meglio.
Ad Antsirabe un vecchietto mi propose l’acquisto di un bastone da passeggio intarsiato in modo tale che un serpente sembrava inerpicarsi a…..serpentina sul bastone stesso. Ma siccome non ero sicuro che sarei riuscito a infilarlo in valigia, neanche di traverso, declinai l’offerta. Poi, però, ripensandoci, m’invaghii di quell’oggetto d’artigianato e uscii dal ristorante per rintracciare il vecchio. Normalmente, le persone anziane non fanno molta strada, specie quando all’interno di un ristorante ci sono dei Vazaha appena scesi da un taxi brousse, che si rifocillano e che potrebbero magari cambiare idea. Il mio vecchietto, evidentemente, faceva eccezione, perché quando tornai sui miei passi per rintracciarlo non c’era più. Alla gente a cui chiedevo: “Antitsy, bibilava?” (anziano, serpente), devo essere sembrato uno dei tanti stranieri fuori di testa. Il Madagascar, a noi bianchi, a volte fa degli strani effetti.
A Vineta mi feci accompagnare da due simpatici giovanotti, Kael e Artufin, in qualità di guide. Lo scopo era di cercare fossili, operazione più emozionante che comprarli direttamente dalle mani dei malgasci. Conoscendo il mio interesse per gli animali, i ragazzi a un certo punto mi indicarono un “merin-bitiki”, letteralmente “madre delle formiche”. I due baldi giovani si tennero a debita distanza, distanza che aumentava proporzionalmente man mano che, dopo aver preso in mano il serpente, mi avvicinavo loro per farglielo vedere da vicino. La qual cosa, però, non era nei loro programmi, né nelle loro aspettative, e infatti non ci fu verso di accrescere le loro conoscenze zoologiche. Così, scattate un paio di foto, rilasciai l’ofido. Kael, in seguito, mi spiegò che gli è stato dato quel curioso nome perché il merin-bitiki vive nei formicai, dove regna sovrano e dove si fa portare da mangiare dalle formiche stesse. Che qualche serpente viva nei formicai è plausibile: si chiama mutualismo. Ma che si faccia portare il cibo dalle formiche è un’invenzione fantasiosa dei malgasci.
Ad Ankilybe, la mia padrona di casa mi chiamò dicendomi che aveva catturato un boa nel pollaio mettendogli sopra un bidone di ferro. Quando arrivai sul posto e scoperchiai il bidone, del boa non c’era traccia. Era nel suo interesse farsi catturare da me, giacché al guardiano avevano mangiato alcuni pollastri e in Madagascar, non essendoci volpi, i maggiori indiziati sono proprio i boa. Dunque, se fossi riuscito a catturarlo, gli avrei in un certo senso salvato la vita, considerati i propositi vendicativi del custode. Per fortuna, in una capanna degli attrezzi poco distante, su indicazione del guardiano stesso, lo trovai e lo presi in braccio. Volli misurarlo: 120 centimetri di lunghezza. Il più lungo serpente che, nella mia carriera di erpetologo dilettante, sono riuscito a prendere in mano. Quando lo infilai in una ghiacciaia senza ghiaccio, di plastica, per sistemarlo sul portapacchi della bicicletta, colei che sarebbe diventata mia moglie, ebbe una reazione di disappunto e di rimprovero: prove tecniche di vita matrimoniale. Il bibilava avrebbe, secondo lei, reso impuro e non più utilizzabile il recipiente. Tuttavia, non avevo altri contenitori adatti a portata di mano. Se si considera che era riuscito a scappare da sotto un pesante bidone di ferro, nessuno scatolone avrebbe potuto trattenerlo. Per una volta, le idiosincrasie malgasce verso certe specie animali dovettero lasciare il passo a considerazioni di tipo pragmatico-razionaliste. Mi diressi verso La Table, dove lo liberai.
Sulla strada verso Mangily, in quel punto maledetto delle dune fossili, vero Scilla e Cariddi di tutti i mezzi motorizzati, il taxi brousse s’insabbiò. Scendemmo e a lato della strada vedemmo un boa morto, legato a una corda e sorretto verticalmente da un bastone. Vicino ad esso, alcuni ragazzi. Fui l’unico dei passeggeri scesi che vi si diresse. I ragazzi mi dissero che l’avevano trovato già morto vicino a un corso d’acqua: ingenua bugia. E’ vero che i malgasci si tengono lontano dai serpenti – ed è strano perché su tutta l’isola non esistono serpenti velenosi – ma è molto probabile che il più coraggioso fra essi lo abbia ucciso, per poi trascinarlo dove passano i pick up- brousse, sperando magari di trarne un qualche business. Da me non ebbero niente, poiché non si deve, o non si dovrebbe, premiare l’uccisione di animali.
Ciò che vidi un venerdì pomeriggio, e poi la domenica seguente, sul Boulevard de la Liberation di Antananarivo, mi lasciò sconcertato. Non era la prima volta che vedevo assembramenti di folla attorno a qualche spettacolo di strada, ma non mi ero mai intrufolato fra gli astanti per capire cosa vi si svolgesse di preciso. Quel venerdì lo feci. E pure la domenica seguente. Si trattava di mangiatori di spade, detti anche mangiafuoco. A Federico Fellini sarebbero piaciuti. A me, no. Anche perché non mangiavano né spade, né fuoco. Troppo pericolose le prime, troppo cara la benzina per “mangiare” il secondo. E dunque, che altro resta a un malgascio anticonformista e profanatore di tabù che voglia stupire il pubblico e trarne qualche guadagno?
I serpenti. Quegli innocui colubri striati che tante volte ho incontrato in campagna e che si lasciano fotografare facilmente, data le loro indole pacifica. Mentre la domenica il fachiro era coadiuvato da un ragazzino contorsionista, quello del venerdì era solo, ma entrambi i titolari dello spettacolo tenevano in mano una manciata di colubri aggrovigliati. A volte se li mettevano in tasca, per fare un po’ di scena e far durare lo spettacolo. A volte ne mettevano uno in terra che, cercando di scappare, dimostrava di essere un vero serpente. Li bagnavano con acqua, preludio all’ingestione, forse per renderli più scivolosi. Quando mi misi a sbirciare tra le teste dei presenti, il venerdì, mia moglie mi disse che il fachiro ne aveva già ingollato uno e mentre si apprestava a ingoiare il secondo, si toccava il ventre in diversi punti, come a controllare dove fosse il primo. Gesti perfettamente inutili. Tutta scena. Quando il mangiaserpenti vide che brandivo una macchinetta digitale, si mise in posa davanti a me, con metà serpente già ingoiato. Me ne andai subito, con espressione disgustata, facendo ridere i presenti: i vazaha sono delle femminucce, devono aver pensato. Né potevano immaginare che invece si trattava di un vazaha animalista, che è di specie diversa dai vazaha comuni. Una sottospecie, direi. Benché si sia messo in posa per me, da me non ebbe nulla. Disapprovo ogni forma di maltrattamento ai danni degli animali, sia nel Primo che nel Terzo Mondo, anche se in quel caso non mi era possibile spiegarglielo,anche se difficilmente lo avrebbe capito. Fanno fatica gli occidentali, a capirlo, figurarsi gli altri!
Domenica, invece, lo spettacolo principale erano le capriole di un adolescente, che camminava sulle mani e faceva quegli esercizi da spina dorsale di gomma che anche le nostre atlete di ginnastica artistica sanno fare. Il suo capo, sempre con un groviglio di colubri in mano, gli dava disposizioni e lo mandava, tra una capriola e l’altra, a fare il giro con il cappello in mano. In quel caso, sia io che mia moglie, mettemmo qualche soldino nel berretto, venendo meno ai miei principi, ma pensando che le sue fatiche (e non quelle del suo direttore artistico) andavano in qualche modo premiate. Quando poi toccò al capo di girare con il cappello delle offerte, poiché non aveva ancora “mangiato” nessun serpente, io e mia moglie, di comune accordo, ce ne andammo: era già abbastanza quello che gli avevamo dato. Di più non era possibile. La mia compagna mi disse che i serpenti, a spettacolo finito, vengono vomitati, ma l’acido cloridrico, fintanto che restano nello stomaco, non deve fargli piacere. E comunque, i serpenti non si divertono.
A mente fredda, ho frugato nella memoria per sapere se altre culture nel mondo fanno cose simili. Ma mentre da noi i mangiatori di spade ingoiano a volte interi tubi al neon, finendo talvolta all’ospedale con lesioni gravissime qualora il tubo si rompa nell’esofago, l’unico esempio affine a ciò che vidi sugli Arabeny di Tanà, fu quella specie di rito della fertilità presente nel film “Africa ama”, dei fratelli Castiglioni . Vi si vedeva uno stregone che infilava un serpente vivo nell’organo genitale di una paziente che si era sottoposta a tale trattamento per avere figli. I fratelli Castiglioni sono stati accusati da altri registi di documentari di aver forzato un po’ la mano per ottenere immagini clamorose, ma ciò è perdonabile in confronto al film “Africa addio”, di Jacopetti e Prosperi, che è ancora più artificioso e decisamente rivoltante . La stessa accusa, benché più blanda, fu rivolta al film “Padre padrone”, dei fratelli Taviani, tratto da un romanzo di Gavino Ledda e ambientato in Sardegna . Dunque, certi documentari sulla vita dei popoli nativi vanno presi con beneficio d’inventario. Non prendo, inoltre, in considerazione l’uso culinario dei serpenti, come avviene in Giappone, né le prove di forza e virilità, spontanee e non sistematiche, come può avvenire tra soldati e altri guerrieri tribali , perché non attiene all’uso – diciamo così - ludico dei serpenti.
E’ innegabile comunque che il serpente esercita da millenni sull’uomo il suo diabolico fascino, a cominciare dalla tentazione di Eva nel paradiso terrestre, ad opera dell’antico serpente, che è chiamato diavolo e Satana, schiacciato sotto i piedi, successivamente, dalla vergine Maria, passando per la dama dei serpenti, raffigurata in statuette trovate nel palazzo di Cnosso, a Creta , per arrivare ai cobra degli incantatori indù e ai serpenti del Caduceo di Esculapio, dio greco della medicina. Per tacere di Quetzalcoatl, il serpente piumato degli aztechi e al simbolo stesso del serpente, antico quanto quello della spirale e della svastica. E lasciamo stare la processione di Cocullo, in Abruzzo, con il santo patrono avvinghiato di colubri, catturati dai serpari nei giorni precedenti alla festa . Insomma, ce n’è abbastanza per dire che l’ofido, con il suo incedere strisciante e il suo essere potenziale portatore di morte, oltre che simbolo fallico per eccellenza, è soggetto da parte nostra a un ambiguo, millenario e irrisolto rapporto di amore-odio. Ma ai serpenti, tutto questo, non interessa. Ciò che li interessa è di essere lasciati in pace, ma, a quanto pare, non c’è luogo al mondo dove gli esseri umani rispettino tale loro aspettativa.

Freeanimals

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