Scritto da Lisa Vagnozzi
Riscaldamento globale, espansione urbanistica, industrializzazione e altre attività umanestanno avendo effetti profondi sull’ambiente, modificandolo e, in alcuni casi, compromettendone
ecosistemi ed equilibri, fino a minacciare la sopravvivenza di autentici paradisi naturali.
Basti pensare che, se non ci sarà un’inversione di tendenza, entro il 2030 potremmo dover dire addio alla grande barriera corallina e, nei decenni successivi, ai grandi ghiacciai alpini e alle distese ghiacciate del Polo Nord.
Proprio a partire dalla prossimità di queste “scadenze”, il sito Budget Travel ha pensato di stilare una lista delle 10 meraviglie naturali da visitare prima che sia troppo tardi. Il turismo, però, può rivelarsi un’arma a doppio taglio per delle aree naturali già a rischio: se è di certo una fonte preziosa di risorse economiche per garantire la tutela degli ecosistemi, d’altro canto, incrementando presenza e attività umane, può determinare un netto peggioramento della situazione (a tal proposito vi consigliamo di leggere i 15 luoghi rovinati dal turismo di massa) Per questo Budget Travel propone anche dei consigli per fare turismo in modo ecosostenibile e responsabile, assaporando la bellezza dei paesaggi, della flora e della fauna senza arrecare danni.
Ecco quindi la lista delle10 meraviglie naturali da vedere prima che scompaiano:
1. La barriera corallina del Belize
Con una lunghezza complessiva di 300 km, la barriera corallina del Belize, nel Mar dei Caraibi, è seconda solo alla grande barriera corallina australiana. Inserita nel 1996 nell’elenco dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO, la Belize Barrier Reef ospita una grandissima varietà di specie animali e vegetali, presentando unecosistema ricchissimo e offrendo riparo ad animali rarissimi o in via di estinzione, come tartarughe marine e lamantini.
Le maggiori minacce alla sopravvivenza della barriera corallina del Belize sono rappresentate dagli uragani, dal riscaldamento delle acque oceaniche, dall’inquinamento legato alle attività umane e dal turismo massiccio, che comporta un’invasione continua di navi da crociera. Si stima che, a partire dal 1998, la somma di questi agenti abbia portato alla distruzione del 40% della barriera corallina: per questo, nel 2009 l’UNESCO ha inserito il sito nella triste lista dei Patrimoni dell’umanità in pericolo.
2. Il bacino del fiume Congo
Dopo quello del Rio delle Amazzoni, il bacino del Congo, con la sua foresta tropicale estesa su 6 Paesi, è il più grande bacino fluviale al mondo: una preziosissima fonte di ossigeno e dibiodiversità per la Terra, nonché di cibo, risorse minerarie ed erbe medicinali per le popolazioni locali.
Ciò nonostante, il ricco ecosistema del bacino del Congo è costantemente minacciato da disboscamenti illegali collegati sia al commercio del legno che adattività agricole e di allevamento, dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse minerarie e, in alcune zone segnate da guerre e conflitti, dal fenomeno della guerriglia.
3. Il Mar Morto
Il Mar Morto si trova nella depressione più profonda della superficie terrestre, tra Israele, Cisgiordania e Giordania. È un lago chiuso in cui si immettono il fiume Giordano e altri corsi d’acqua ed è caratterizzato da una salinità di 10 volte superiore a quella marina. La densità delle sue acque è tale da far galleggiare gli eventuali bagnanti e l’elevata salinità non permette la vita di nessun organismo vivente, ad eccezione dei batteri.
L’esistenza del Mar Morto è minacciata dall’abbassamento costante del livello delle acque, dovuto alla forte evaporazione, non compensata dall’apporto di acque da parte del fiume Giordano (il cui corso è stato deviato a scopi agricoli) e degli altri corsi d’acqua. A complicare il quadro si aggiungono le numerose attività industriali collegate all’estrazione di minerali.
Una delle soluzione proposte per frenare il prosciugamento del Mar Morto è la costruzione di un canale di collegamento di alcune centinaia di chilometri tra il bacino e il Mar Rosso: il piano prevede la produzione di energia elettrica e un impianto di desalinizzazione per rifornire di acqua la città di Amman, ma è criticato da più parti sia per l’elevato impatto ambientale che per l’alta sismicità della regione.
4. Le Everglades (Florida, USA)
Le Everglades sono una regione paludosa subtropicale situata a sud della Florida, che ospita una grande varietà di specie vegetali (pini, cipressi, mangrovie…) e animali, in cui convivono coccodrilli e alligatori e in cui ha il proprio habitat la pantera della Florida, una rarissima specie di puma.
Le maggiori minacce alla sopravvivenza delle Everglades sono rappresentate dall’inquinamento industriale, dallo sviluppo smisurato delle aree abitate circostanti e da specie alloctone particolarmente invasive, la cui presenza produce alterazioni nell’ecosistema: per prosciugare le paludi e trasformarle in terreni agricoli, ad esempio, negli anni sono state sparsi nell’area semi di malaleuca, una pianta infestante particolarmente “assetata”; alla malaleuca si aggiungono il pepe brasiliano e il giacinto acquatico. Un’altra specie non autoctona che sta alterando gli equilibri e la catena alimentare dell’area è rappresentata dal pitone birmano.
5. Il Madagascar
Il Madagascar è un’isola dell’Oceano Indiano caratterizzata da un’enorme ricchezza di flora e difauna (tra cui diverse specie di lemuri), grazie anche a lunghi secoli di isolamento.
Oggi la minaccia maggiore per la sopravvivenza delle foreste del Madagascar - che di questo passo rischiano di scomparire entro i prossimi 40 anni - è rappresentata proprio dalle attività umane, in particolare da incendi e disboscamenti mirati a ricavare terreni agricoli e dalla caccia di frodo, che stanno mettendo a dura prova gli ecosistemi locali.
6. Le Maldive
Famose soprattutto per le acque limpide, le barriere coralline e le spiagge paradisiache, le Maldive sono anche un importante serbatoio di biodiversità e ospitano numerosissime e coloratissime specie di pesci.
Tuttavia, a causa del riscaldamento globale e dell’innalzamento del livello dei mari - cresciuto, nell’ultimo secolo, di circa 20 cm -, le isole dell’arcipelago - la cui altezza sul livello dell’oceano è, in media, di 1,5 metri - rischiano di venire progressivamente sommerse.
7. I Poli
I Poli, con le loro suggestive montagne di ghiaccio e con la presenza di specie animali rarissime, quali ad esempio pinguini, orsi polari e balene, costituiscono un habitat naturale unico, insostituibile e dai delicatissimi equilibri.
La sopravvivenza degli ecosistemi polari è infatti pesantemente minacciata dal riscaldamento globale e dal conseguente e progressivo scioglimento dei ghiacci, che rischia di portare alla scomparsa di numerosissime specie animali.
8. Il Parco Nazionale di Ranthambore (Rajasthan, India)
Il Parco di Ranthambore è conosciuto soprattutto per l’ampia presenza di tigri, che ne rappresentano una delle ragioni di esistenza (la riserva fu istituita nel 1973 dal governo indiano nell’ambito del cosiddetto “Progetto Tigre”), nonché la principale attrattiva turistica e naturalistica. D’altra parte, più della metà delle tigri attualmente esistenti vive in India.
Tuttavia, anche all’interno del parco la popolazione felina è decresciuta notevolmente nel corso degli ultimi anni (nel 2005 si stimava la presenza di 26 esemplari, contro i 44 del 1982), soprattutto per via del bracconaggio, una pratica illegale ma difficile da estirpare.
9. La foresta pluviale di Tahuamanú
La foresta pluviale di Tahuamanù, nella regione di Madre de Dios del Perù, è uno scrigno di biodiversità, con specie rare quali l’armadillo gigante, il giaguaro, la lontra gigante e diverse e coloratissime varietà di uccelli e pappagalli.
Paradossalmente, la sopravvivenza della foresta di Tahuamanù è minacciata dalla sua stessa ricchezza: le sue immense distese di mogano fanno gola sul mercato internazionale del legno (l’80% viene venduto negli Stati Uniti per realizzare arredi costosi e pregiati) e sono da anni oggetto di disboscamenti indiscriminati che stanno alterando interi ecosistemi e danneggiando le tribù indigene che da sempre abitano l’area.
Alla deforestazione selvaggia si aggiunge l’inquinamento di aria e acque dovuto all’uso delmercurio per estrarre l’oro dal limo dei fiumi della zona: l’estrazione dell’oro rappresenta infatti la principale risorsa industriale della regione di Madre de Dios.
10. Il bacino del fiume Azzurro o Yangtze
Terzo fiume al mondo per lunghezza, dopo il Nilo e il Rio delle Amazzoni, il bacino del fiume Azzurro ospita una varietà di specie vegetali e animali, tra cui ilpanda gigante e il lipote (detto anche delfino dello Yangtze), dichiarato estinto nel 2006 ma riavvistato nel 2007.
Il fiume Azzurro, navigabile per ampi tratti e dalle rive fertili, è da sempre centrale per lo sviluppo economico cinese: la massiccia industrializzazione e il continuo transito di navi ne hanno fatto uno dei fiumi più inquinati al mondo, mentre il robusto sviluppo agricoloha determinato la scomparsa della maggior parte delle foreste che lo costeggiavano.
Ulteriori stravolgimenti sono stati provocati negli ultimi anni dalla costruzione della diga delle Tre Gole, inaugurata nel 2006 ma non ancora a pieno regime. La diga è un complesso di proporzioni monumentali la cui realizzazione ha comportato la scomparsa di centri abitati, siti archeologici ed aree naturali, determinando il trasferimento di milioni di abitanti in altre zone del Paese, stravolgendo gli ecosistemi e provocando la sparizione di numerose specie animali e vegetali.
giovedì 19 maggio 2011
UNA PASSIONE ETICAMENTE CONDANNABILE
Gigio mi disse che non aveva paura dei malaso, i banditi dediti all’abigeato in Madagascar. Mi disse che se nella brousse, la boscaglia, i malaso dovessero incontrarlo, non lo degnerebbero neanche di uno sguardo, né lui né il suo orologio d’oro al polso, perché non avrebbe ciò che loro cercano: gli omby (zebù).
Non so quanto la sua descrizione corrisponda alla realtà e può darsi che Gigio sia un po’ fanfarone. Io me la farei sotto!
Infatti, ho sentito dire che i ladri di omby spesso sparano alle gambe ai proprietari, in modo da non essere seguiti o ritardare la ricerca. Quando sono in fuga su per le montagne e qualche zebù non ce la fa a star dietro alla mandria, lo uccidono lì sul posto, così che gli inseguitori, che nel frattempo si sono organizzati, trovano i sentieri disseminati di cadaveri bovini.
In città, i gangsters che nottetempo danno l’assalto alle abitazioni dei vazaha, per prima cosa sparano ai guardiani malgasci, così che il mestiere di custode delle case dei bianchi risulta essere fra i più pericolosi. A volte può capitare che siano i guardiani stessi a fare entrare i ladri nelle proprietà private, ma non tanto a scopo di rapina a mano armata, quanto per portar via materiale da costruzione. In tal caso, i guardiani traditori non si giocano solo il posto, ma finiscono in tribunale, denunciati dai loro ex datori di lavoro. Sono talmente numerosi i casi di questo genere, che viene il sospetto che i malgasci a cui viene data la responsabilità di custodire il cantiere di una casa in costruzione non si rendano conto della gravità del gesto.
La linea di confine tra legalità e illegalità probabilmente per i malgasci è molto aleatoria, almeno quando ci sono di mezzo i vazaha. Sembra che partano dal presupposto che, essendo ricchi, i bianchi siano una categoria di persone prive di diritti, quasi come le ambasciate: una specie di area extraterritoriale.
Tale confusione tra giusto e ingiusto forse parte da lontano, da quando sono bambini e vengono lasciati crescere senza le direttive di un adulto che li segua da vicino. Se da una parte la cosa può avere il suo fascino perché ci ricorda il buon selvaggio di Jean Jacq Russeau, dall’altra ci lascia senza parole, condizionati come siamo, noi bianchi, fin dall’infanzia a riconoscere il buono dal cattivo. O ciò che ci hanno detto sia il buono e il cattivo.
In Madagascar ho visto squadre di ragazzini armati di fionda girovagare per le periferie e le campagne e abbattere chiunque voli davanti a loro e immagino che questo sia un comportamento incoraggiato dai genitori. Resta da chiarire, poi, se quei miseri uccelletti abbattuti servano a integrare la scarsa cena della famiglia o non siano il trastullo sadico di ragazzini abbandonati a se stessi. Ciò li equiparerebbe al sadico passatempo di 750.000 italiani, adulti questa volta, che fanno la stessa cosa con strumenti ben più micidiali delle fionde.
Bisogna essere il più obiettivi possibile e tra un indio amazzonico che se ne va in giro nudo nella foresta ad ammazzare scimmie con la cerbottana e un europeo con stivaloni e giacca mimetica che se ne va in giro nelle nostre altamente antropizzate campagne a sparare a galline travestite da fagiani, è giusto essere indulgenti con il primo, ma condannare recisamente il secondo. Che è quello che una parte di cittadini fa da molti anni, provando a fermare quell’esercito di sparatori, spalleggiati dalle industrie armiere, che per sette mesi l’anno vengono autorizzati a disseminare pallini di piombo, uccidere e ferire gli animali e mettere a repentaglio la sicurezza di escursionisti, residenti di case isolate, campeggiatori e cercatori di funghi.
Per manifestare la propria contrarietà verso la caccia, così com’è praticata nei paesi ricchi, ci sono modi più o meno legali e si va dal bruciare i capanni da caccia (senza il cacciatore dentro) al partecipare a cortei e manifestazioni di vario genere; dal bucare le ruote delle auto dei cacciatori, all’indire conferenze e assemblee pubbliche, con tanto di documentario e relatore ben informato. Esiste, in Italia, anche l’associazione delle vittime della caccia, paragonabile a quelle delle vittime delle stragi di Stato o degli incidenti in fabbrica e nei posti di lavoro.
Se giustamente esiste una legge che, nei cantieri di lavoro, prevede una serie di misure di sicurezza per i lavoratori, niente del genere è previsto per chi se ne va in giro armato in campagna. Nei paesi del centro e nord Europa, ai cacciatori è fatto obbligo di indossare tute fosforescenti, gialle o arancioni, che li rendano visibili, per la loro e altrui sicurezza. In Italia è esattamente il contrario e sembra che vestirsi con abbigliamento mimetico sia indispensabile per il provetto cacciatore, come se gli animali fossero così miopi da non accorgersi del pericolo, benché munito di giacca militar-leopardata.
Si assiste poi a un curioso fenomeno, che può essere definito come una sorta di ribaltamento dei ruoli. Stando ai commenti dei lettori di giornale, sembra che i cacciatori siano i buoni, mentre gli animalisti che vorrebbero togliere loro il giocattolo prediletto siano i cattivi. Basta che il soggetto paghi le tasse e diventa tutto legittimo. Tutto viene autorizzato, purché si paghi l’obolo allo Stato. Pagando fior di quattrini, il seguace di Diana si sente legittimato a proseguire la sua infame attività, si autogiustifica e allontana da sé ogni fastidioso dubbio in merito all’eticità del suo comportamento.
Dal mio punto di vista, i cacciatori sono individui amorali. Come siano diventati così è facilmente intuibile. Gli ingredienti sono: grassa ignoranza, maschilismo ottuso e sfrenato, abitudini inveterate, mancanza di alternative e di stimoli culturali, spirito di corpo rigido e, soprattutto, un contesto sociale monolitico.
S’immagini un abitante maschio adulto della Val Trompia, in provincia di Brescia, la patria delle industrie armiere. Tutti i giovani, figli di cacciatori da generazioni, aspirano a prendere la licenza di caccia allo scoccare dei diciotto anni. Non c’è un parente, un cugino, uno zio o un vicino di casa, che non vada a cacciare, e magari anche a mettere i famigerati, nonché vietati, archetti per catturare pettirossi. Un individuo del genere, che lavora in fabbrica tutta la settimana, che considera la Gazzetta dello sport il non plus ultra della cultura, che passa ore e ore davanti alla televisione a bearsi di trasmissioni insulse, che vota per un partito xenofobo come la Lega Nord e che considera un disonore non calcare le orme paterne, si direbbe condannato a seguire la stessa strada dei padri. Sarebbe impossibile per lui svincolarsi da tale destino.
Un tale individuo, se si fosse trovato a Longarone il primo maggio scorso, davanti alla fiera dove si teneva l’annuale festa dei cacciapescatori, e avesse sentito le urla e gli insulti degli animalisti rivolti alle due categorie di “fruitori” della natura, non avrebbe potuto fare a meno di pensare che cacciatori e pescatori sono nel giusto, mentre gli animalisti sbagliano.
E una tale conclusione sarebbe la più moderata a cui potrebbe giungere. Di sicuro penserebbe cose ben peggiori riguardo a quel gruppo di…esaltati che vorrebbero togliergli la sua passione preferita: l’uccisione sadica degli animali. Ma lui sarebbe coinvolto emotivamente, nei suoi giudizi, perché fa parte della categoria.
Una persona esterna, invece, che non sia né cacciatore né animalista, dovrebbe cercare di arrivare a un giudizio obiettivo e pensare che, finché lo Stato glielo permette, i cacciatori sono autorizzati a cacciare. Purtroppo difficilmente un osservatore esterno si renderebbe conto che se lo Stato permette la caccia agli animali è perché trova giusto il principio che sia lecito dare la caccia a qualcuno, magari un talebano barbuto che si nasconde nelle grotte dell’Afghanistan, o un arabo che odia i crociati in quel territorio che un tempo si chiamava Iraq e che oggi non è altro che un cumulo di macerie.
Forse avrebbe anche difficoltà, un simile imparziale osservatore, a rendersi conto che lo Stato, gli oppositori, li elimina fisicamente o nel migliore dei casi li manganella nelle strade durante le manifestazioni. E’ lo stesso Stato che mette le bombe sui treni, gli aerei, le stazioni, le banche e le piazze. E allora, se quell’osservatore esterno alla caccia e all’animalismo, si ricorda tutto questo, forse capisce che il problema è molto più vasto e con le tasse ricavate dai cacciatori, dai fabbricanti di armi e con le stragi che restano regolarmente impunite, il cerchio si chiude. E’ lo Stato il problema, non tanto i coccolati e vezzeggiati sparatori della domenica. In Italia e nel resto dell’Occidente è così, in Madagascar non ancora. Ma non è detto che ci si arrivi.
Freeanimals
Non so quanto la sua descrizione corrisponda alla realtà e può darsi che Gigio sia un po’ fanfarone. Io me la farei sotto!
Infatti, ho sentito dire che i ladri di omby spesso sparano alle gambe ai proprietari, in modo da non essere seguiti o ritardare la ricerca. Quando sono in fuga su per le montagne e qualche zebù non ce la fa a star dietro alla mandria, lo uccidono lì sul posto, così che gli inseguitori, che nel frattempo si sono organizzati, trovano i sentieri disseminati di cadaveri bovini.
In città, i gangsters che nottetempo danno l’assalto alle abitazioni dei vazaha, per prima cosa sparano ai guardiani malgasci, così che il mestiere di custode delle case dei bianchi risulta essere fra i più pericolosi. A volte può capitare che siano i guardiani stessi a fare entrare i ladri nelle proprietà private, ma non tanto a scopo di rapina a mano armata, quanto per portar via materiale da costruzione. In tal caso, i guardiani traditori non si giocano solo il posto, ma finiscono in tribunale, denunciati dai loro ex datori di lavoro. Sono talmente numerosi i casi di questo genere, che viene il sospetto che i malgasci a cui viene data la responsabilità di custodire il cantiere di una casa in costruzione non si rendano conto della gravità del gesto.
La linea di confine tra legalità e illegalità probabilmente per i malgasci è molto aleatoria, almeno quando ci sono di mezzo i vazaha. Sembra che partano dal presupposto che, essendo ricchi, i bianchi siano una categoria di persone prive di diritti, quasi come le ambasciate: una specie di area extraterritoriale.
Tale confusione tra giusto e ingiusto forse parte da lontano, da quando sono bambini e vengono lasciati crescere senza le direttive di un adulto che li segua da vicino. Se da una parte la cosa può avere il suo fascino perché ci ricorda il buon selvaggio di Jean Jacq Russeau, dall’altra ci lascia senza parole, condizionati come siamo, noi bianchi, fin dall’infanzia a riconoscere il buono dal cattivo. O ciò che ci hanno detto sia il buono e il cattivo.
In Madagascar ho visto squadre di ragazzini armati di fionda girovagare per le periferie e le campagne e abbattere chiunque voli davanti a loro e immagino che questo sia un comportamento incoraggiato dai genitori. Resta da chiarire, poi, se quei miseri uccelletti abbattuti servano a integrare la scarsa cena della famiglia o non siano il trastullo sadico di ragazzini abbandonati a se stessi. Ciò li equiparerebbe al sadico passatempo di 750.000 italiani, adulti questa volta, che fanno la stessa cosa con strumenti ben più micidiali delle fionde.
Bisogna essere il più obiettivi possibile e tra un indio amazzonico che se ne va in giro nudo nella foresta ad ammazzare scimmie con la cerbottana e un europeo con stivaloni e giacca mimetica che se ne va in giro nelle nostre altamente antropizzate campagne a sparare a galline travestite da fagiani, è giusto essere indulgenti con il primo, ma condannare recisamente il secondo. Che è quello che una parte di cittadini fa da molti anni, provando a fermare quell’esercito di sparatori, spalleggiati dalle industrie armiere, che per sette mesi l’anno vengono autorizzati a disseminare pallini di piombo, uccidere e ferire gli animali e mettere a repentaglio la sicurezza di escursionisti, residenti di case isolate, campeggiatori e cercatori di funghi.
Per manifestare la propria contrarietà verso la caccia, così com’è praticata nei paesi ricchi, ci sono modi più o meno legali e si va dal bruciare i capanni da caccia (senza il cacciatore dentro) al partecipare a cortei e manifestazioni di vario genere; dal bucare le ruote delle auto dei cacciatori, all’indire conferenze e assemblee pubbliche, con tanto di documentario e relatore ben informato. Esiste, in Italia, anche l’associazione delle vittime della caccia, paragonabile a quelle delle vittime delle stragi di Stato o degli incidenti in fabbrica e nei posti di lavoro.
Se giustamente esiste una legge che, nei cantieri di lavoro, prevede una serie di misure di sicurezza per i lavoratori, niente del genere è previsto per chi se ne va in giro armato in campagna. Nei paesi del centro e nord Europa, ai cacciatori è fatto obbligo di indossare tute fosforescenti, gialle o arancioni, che li rendano visibili, per la loro e altrui sicurezza. In Italia è esattamente il contrario e sembra che vestirsi con abbigliamento mimetico sia indispensabile per il provetto cacciatore, come se gli animali fossero così miopi da non accorgersi del pericolo, benché munito di giacca militar-leopardata.
Si assiste poi a un curioso fenomeno, che può essere definito come una sorta di ribaltamento dei ruoli. Stando ai commenti dei lettori di giornale, sembra che i cacciatori siano i buoni, mentre gli animalisti che vorrebbero togliere loro il giocattolo prediletto siano i cattivi. Basta che il soggetto paghi le tasse e diventa tutto legittimo. Tutto viene autorizzato, purché si paghi l’obolo allo Stato. Pagando fior di quattrini, il seguace di Diana si sente legittimato a proseguire la sua infame attività, si autogiustifica e allontana da sé ogni fastidioso dubbio in merito all’eticità del suo comportamento.
Dal mio punto di vista, i cacciatori sono individui amorali. Come siano diventati così è facilmente intuibile. Gli ingredienti sono: grassa ignoranza, maschilismo ottuso e sfrenato, abitudini inveterate, mancanza di alternative e di stimoli culturali, spirito di corpo rigido e, soprattutto, un contesto sociale monolitico.
S’immagini un abitante maschio adulto della Val Trompia, in provincia di Brescia, la patria delle industrie armiere. Tutti i giovani, figli di cacciatori da generazioni, aspirano a prendere la licenza di caccia allo scoccare dei diciotto anni. Non c’è un parente, un cugino, uno zio o un vicino di casa, che non vada a cacciare, e magari anche a mettere i famigerati, nonché vietati, archetti per catturare pettirossi. Un individuo del genere, che lavora in fabbrica tutta la settimana, che considera la Gazzetta dello sport il non plus ultra della cultura, che passa ore e ore davanti alla televisione a bearsi di trasmissioni insulse, che vota per un partito xenofobo come la Lega Nord e che considera un disonore non calcare le orme paterne, si direbbe condannato a seguire la stessa strada dei padri. Sarebbe impossibile per lui svincolarsi da tale destino.
Un tale individuo, se si fosse trovato a Longarone il primo maggio scorso, davanti alla fiera dove si teneva l’annuale festa dei cacciapescatori, e avesse sentito le urla e gli insulti degli animalisti rivolti alle due categorie di “fruitori” della natura, non avrebbe potuto fare a meno di pensare che cacciatori e pescatori sono nel giusto, mentre gli animalisti sbagliano.
E una tale conclusione sarebbe la più moderata a cui potrebbe giungere. Di sicuro penserebbe cose ben peggiori riguardo a quel gruppo di…esaltati che vorrebbero togliergli la sua passione preferita: l’uccisione sadica degli animali. Ma lui sarebbe coinvolto emotivamente, nei suoi giudizi, perché fa parte della categoria.
Una persona esterna, invece, che non sia né cacciatore né animalista, dovrebbe cercare di arrivare a un giudizio obiettivo e pensare che, finché lo Stato glielo permette, i cacciatori sono autorizzati a cacciare. Purtroppo difficilmente un osservatore esterno si renderebbe conto che se lo Stato permette la caccia agli animali è perché trova giusto il principio che sia lecito dare la caccia a qualcuno, magari un talebano barbuto che si nasconde nelle grotte dell’Afghanistan, o un arabo che odia i crociati in quel territorio che un tempo si chiamava Iraq e che oggi non è altro che un cumulo di macerie.
Forse avrebbe anche difficoltà, un simile imparziale osservatore, a rendersi conto che lo Stato, gli oppositori, li elimina fisicamente o nel migliore dei casi li manganella nelle strade durante le manifestazioni. E’ lo stesso Stato che mette le bombe sui treni, gli aerei, le stazioni, le banche e le piazze. E allora, se quell’osservatore esterno alla caccia e all’animalismo, si ricorda tutto questo, forse capisce che il problema è molto più vasto e con le tasse ricavate dai cacciatori, dai fabbricanti di armi e con le stragi che restano regolarmente impunite, il cerchio si chiude. E’ lo Stato il problema, non tanto i coccolati e vezzeggiati sparatori della domenica. In Italia e nel resto dell’Occidente è così, in Madagascar non ancora. Ma non è detto che ci si arrivi.
Freeanimals
9 animali che sanno predire che tempo farà
La nostra tradizione popolare è ricchissima di credenze e superstizioni, alcune delle quali affondano le loro radici in tempi molto antichi: tra queste quella di attribuire a molte specie animali capacità quasi soprannaturali, come quella di “prevedere il tempo”, o meglio di percepire con largo anticipo i cambiamenti climatici e atmosferici.
La nostra tradizione popolare è ricchissima di credenze e superstizioni, alcune delle quali affondano le loro radici in tempi molto antichi: tra queste quella di attribuire a molte specie animali capacità quasi soprannaturali, come quella di “prevedere il tempo”, o meglio di percepire con largo anticipo i cambiamenti climatici e atmosferici.
La scienza, dopo aver sgombrato il campo da qualsivoglia forma di magia, ci rassicura attribuendo questa capacità da parte degli animali, al loro processo evolutivo. Alcuni di essi hanno sviluppato una serie di adattamenti che gli consentono di percepire anche la più piccola variazione climatica.
Ed ecco allora che, nelle vesti di insospettabili metereologi, troviamo rane, mucche, gatti, api e diverse specie di uccelli in grado di prevedere l’arrivo di una tempesta o di un' inattesa giornata calda: e tutto senza l’ausilio della tecnologia.
1) Gatti
I nostri amici a 4 zampe sono in grado di percepire con anticipo rispetto all’uomo l’arrivo di un temporale. Cani e gatti infatti mostrano chiari segni di nervosismo, spesso anche di paura, prima ancora che le nostre orecchie odano dei tuoni in lontananza. Micio, in particolare, ha l’abitudine di grattarsi con la zampa l’orecchio prima dell’arrivo della pioggia. Tale comportamento è da imputare alla sensibilità della sua membrana timpanica che risente facilmente dell’aumento di umidità nell’aria e dell’abbassamento della pressione atmosferica che generalmente accompagnano l'arrivo del maltempo. Lo sapevano bene i marinai che erano soliti portare con se nei lunghi viaggi in mare il felino, che oltre a tenere sotto controllo la popolazione di ratti sulle imbarcazioni, era in grado fornire preziose informazioni sul meteo.
2) Uccelli
Molti uccelli attraverso il volo sono in grado di inviarci precisi messaggi sul tempo che farà.Rondini e rondoni ad esempio volando ad alta quota ci rassicurano su un tempo stabile e sereno. Se invece il loro volo si fa più vicino al suolo è in arrivo il brutto tempo: l’alterazione della pressione atmosferica causata dall’arrivo del maltempo infatti rende più difficile e faticoso volare in quota.
3) Mucche
Secondo molti agricoltori anche i bovini sono in grado di prevedere i cambiamenti climatici. Le mucche infatti prima dell’arrivo del cattivo tempo diventano ansiose ed irrequiete ed agitano vistosamente la coda cercando un posto riparato dove sdraiarsi.
4) Pecore
Come le loro cugine, anche le pecore presagiscono l’arrivo della tempesta. Si dice infatti che quando questi simpatici ovini si riuniscono in un gruppo compatto, facendosi scudo l’un l’altro, l’arrivo della pioggia è prossimo.
5) Api e farfalle
Quando questi insetti cessano di svolazzare tra le verdi aiuole il maltempo è in arrivo. Ogni attività viene prontamente interrotta quando c’è un pericolo che proviene dall’alto.
6) Coccinelle
Questo affascinate insetto può suggerirci in anticipo quale sarà il livello raggiunto dal termostato. Infatti la presenza di numerosi esemplari di coccinelle indicano l’arrivo di giornate calde e soleggiate. Al contrario la loro affannosa ricerca di un rifugio ci avvisa che il termometro scenderà rapidamente.
7) Formiche
Diverse specie di formiche hanno l’abitudine, in previsione dell’arrivo del maltempo, di rinforzare i tumuli di terriccio che proteggono l’ingresso delle loro tane. Quindi se vi accorgete che i formicai hanno tumuli più alti e robusti vi consigliamo di correre a chiudere le finestre. La pioggia è in arrivo.
8) Rane
Pare che le abitudini canore di questi anfibi, con l’arrivo del cattivo tempo, tendano ad intensificarsi e ad aumentare di volume. Quindi se il loro gracidare si fa più forte ricordatevi l’ombrello.
9) Marmotte
In America, l’animale più popolare in grado di prevedere i cambiamenti climatici è sicuramente la marmotta. Particolare fama è goduta negli States da Phil, la marmotta di Punxsutawney in Pennsylvania, che il 2 febbraio, nel giorno della marmotta appunto, è solita pronosticare quanto ancora durerà l’inverno.
La natura, ancora una volta riesce a stupirci con la sua perfezione.
Lorenzo De Ritis
La nostra tradizione popolare è ricchissima di credenze e superstizioni, alcune delle quali affondano le loro radici in tempi molto antichi: tra queste quella di attribuire a molte specie animali capacità quasi soprannaturali, come quella di “prevedere il tempo”, o meglio di percepire con largo anticipo i cambiamenti climatici e atmosferici.
La scienza, dopo aver sgombrato il campo da qualsivoglia forma di magia, ci rassicura attribuendo questa capacità da parte degli animali, al loro processo evolutivo. Alcuni di essi hanno sviluppato una serie di adattamenti che gli consentono di percepire anche la più piccola variazione climatica.
Ed ecco allora che, nelle vesti di insospettabili metereologi, troviamo rane, mucche, gatti, api e diverse specie di uccelli in grado di prevedere l’arrivo di una tempesta o di un' inattesa giornata calda: e tutto senza l’ausilio della tecnologia.
1) Gatti
I nostri amici a 4 zampe sono in grado di percepire con anticipo rispetto all’uomo l’arrivo di un temporale. Cani e gatti infatti mostrano chiari segni di nervosismo, spesso anche di paura, prima ancora che le nostre orecchie odano dei tuoni in lontananza. Micio, in particolare, ha l’abitudine di grattarsi con la zampa l’orecchio prima dell’arrivo della pioggia. Tale comportamento è da imputare alla sensibilità della sua membrana timpanica che risente facilmente dell’aumento di umidità nell’aria e dell’abbassamento della pressione atmosferica che generalmente accompagnano l'arrivo del maltempo. Lo sapevano bene i marinai che erano soliti portare con se nei lunghi viaggi in mare il felino, che oltre a tenere sotto controllo la popolazione di ratti sulle imbarcazioni, era in grado fornire preziose informazioni sul meteo.
2) Uccelli
Molti uccelli attraverso il volo sono in grado di inviarci precisi messaggi sul tempo che farà.Rondini e rondoni ad esempio volando ad alta quota ci rassicurano su un tempo stabile e sereno. Se invece il loro volo si fa più vicino al suolo è in arrivo il brutto tempo: l’alterazione della pressione atmosferica causata dall’arrivo del maltempo infatti rende più difficile e faticoso volare in quota.
3) Mucche
Secondo molti agricoltori anche i bovini sono in grado di prevedere i cambiamenti climatici. Le mucche infatti prima dell’arrivo del cattivo tempo diventano ansiose ed irrequiete ed agitano vistosamente la coda cercando un posto riparato dove sdraiarsi.
4) Pecore
Come le loro cugine, anche le pecore presagiscono l’arrivo della tempesta. Si dice infatti che quando questi simpatici ovini si riuniscono in un gruppo compatto, facendosi scudo l’un l’altro, l’arrivo della pioggia è prossimo.
5) Api e farfalle
Quando questi insetti cessano di svolazzare tra le verdi aiuole il maltempo è in arrivo. Ogni attività viene prontamente interrotta quando c’è un pericolo che proviene dall’alto.
6) Coccinelle
Questo affascinate insetto può suggerirci in anticipo quale sarà il livello raggiunto dal termostato. Infatti la presenza di numerosi esemplari di coccinelle indicano l’arrivo di giornate calde e soleggiate. Al contrario la loro affannosa ricerca di un rifugio ci avvisa che il termometro scenderà rapidamente.
7) Formiche
Diverse specie di formiche hanno l’abitudine, in previsione dell’arrivo del maltempo, di rinforzare i tumuli di terriccio che proteggono l’ingresso delle loro tane. Quindi se vi accorgete che i formicai hanno tumuli più alti e robusti vi consigliamo di correre a chiudere le finestre. La pioggia è in arrivo.
8) Rane
Pare che le abitudini canore di questi anfibi, con l’arrivo del cattivo tempo, tendano ad intensificarsi e ad aumentare di volume. Quindi se il loro gracidare si fa più forte ricordatevi l’ombrello.
9) Marmotte
In America, l’animale più popolare in grado di prevedere i cambiamenti climatici è sicuramente la marmotta. Particolare fama è goduta negli States da Phil, la marmotta di Punxsutawney in Pennsylvania, che il 2 febbraio, nel giorno della marmotta appunto, è solita pronosticare quanto ancora durerà l’inverno.
La natura, ancora una volta riesce a stupirci con la sua perfezione.
Lorenzo De Ritis
Mauritius, che venne prima del Paradiso
Spiagge, mare e vegetazione da sogno per una piccola perla dell'oceano Indiano
"Si ha quasi l'idea che Mauritius sia stata creata prima del paradiso e che quest'ultimo sia stato copiato da Mauritius", scriveva Mark Twain nel suo "Following the Equator", oltre un secolo fa.
"Si ha quasi l'idea che Mauritius sia stata creata prima del paradiso e che quest'ultimo sia stato copiato da Mauritius", scriveva Mark Twain nel suo "Following the Equator", oltre un secolo fa. Come lui, molti altri scrittori - da Bernardin de Saint-Pierre a Baudelaire e Conrad fino al moderno Jean-Marie Le Clézio - hanno decantato il fascino soprannaturale di questa meravigliosa perla dell'Oceano Indiano.
Che non è un arcipelago, come erroneamente molti pensano ("le Mauritius"…), ma un'isola, una piccola e splendida isola tropicale. Si trova lungo il 20° parallelo, a nord del Tropico del Capricorno, a soli 800 km dal Madagascar, e con i suoi 1865 kmq di superficie totale è circa 7 volte più piccola della Sardegna. Micro nelle dimensioni ma maxi nella sua ricchezza naturalistica, tutta concentrata in un fazzoletto delimitato da 330 km di coste circondate da una straordinaria barriera corallina.
Grand Baie, sulla costa nord, è una delle zone più turistiche di Mauritius: spiagge da cartolina e vita notturna garantiscono una vacanza all'insegna del divertimento a 360° (non a caso è definita "la Saint Tropez dell'Oceano Indiano"). Cap Malheureux, il punto più settentrionale dell'isola, ha invece la spiaggia maggiormente frequentata dai più giovani. E' nota perché vi sbarcarono gli inglesi nel 1810, durante l'attacco a Port Louis, capitale dell'isola. Di qui, all'orizzonte si può individuare il profilo di quattro isolotti, ognuno di per sé speciale: Coin de Mire, dalla conformazione che ricorda l'"angolo di mira" di un cannone, Ile Plate, sormontata da un faro suggestivo, Gabriel, "imprigionata" nella barriera corallina, e Ile Ronde, terra di fetonti, gechi e molti altri rettili.
Sempre sulla costa nord, ci sono Trou aux Biches (a circa 20 km a nord di Port Louis), caratteristico ex-villaggio di pescatori, e Pamplemousses, che ospita i meravigliosi Royal Botanical Gardens, istituiti nel lontano 1735; all'interno, insieme a 500 specie di piante esotiche, 80 varietà di palme, ninfee giganti e fiori di loto della specie Victoria Regia, si trova la chiesa più antica dell'isola.
Spostandosi ad ovest di Mauritius si trovano poi la baia di Tamarin, meta prediletta dei surfisti, e poco distante, le omonime e spettacolari cascate che fanno il paio con quelle del vicino villaggio di Chamarel. In questa zona, le origini vulcaniche del terreno regalano alla superficie effetti cromatici che vanno dal verde all'oro al rosso intenso. Più a nord si incontrano invece le abbaglianti spiagge bianche di Flic en Flac, nome francese che alcuni amano ricondurre al suono prodotto passeggiando sul bagnasciuga.
Imperdibile, nel cuore dell'area meridionale dell'isola, è il Black River Gorges National Park, una straordinaria riserva di oltre 6000 ettari di lussureggiante foresta. Natura rigogliosa e incontaminata è anche quella che popola gli 800 ettari della Val Riche Forest, popolata da cervi e ogni genere di bellezza floreale (siamo nella zona di Bel Ombre, ricca di piantagioni di canna da zucchero). Altri parchi naturali, perfetti per una pausa dalla vacanza balneare e un'immersione totale nel verde di Mauritius, sono quelli di Valle de Ferney e Domaine de L'Etoile. Si trovano entrambi a pochi chilometri da Mahébourg, la cittadina famosa oltre che per il suo Museo Navale, per i biscotti di manioca prodotti artigianalmente dalla biscotteria Rault. Da Mahébourg si possono organizzare escursioni alla volta delle isole Mouchoir Rouge e Ile Aux Aigrettes, altri diamanti di sabbia finissima, palme e mare color indaco.
Non solo relax e turismo baneare. Mauritius offre tantissimo anche agli amanti dell'attività sportiva. Oltre a immersioni, windsurf e pesca d'altura qui si può fare trekking nelle foreste, vivere le emozioni del canyoning (passare sotto le cascate Eau Bleu nell'estremo sud), percorrere l'intero perimetro dell'isola in bicicletta, andare a cavallo (il centro d'equitazione più importante è a Ecuries de la Vieille Cheminée) o praticare golf (con i suoi 12 campi, l'isola è la meta d'eccellenza dell'Oceano Indiano per i golfisti di tutto il mondo).
Per assaporare infine un po' del folclore e dei costumi dei mauriziani, conviene partecipare a una delle tante feste che ravvivano il calendario annuale, da quella induista dei colori (Holi) a quella di Maha Shivaratri, fino alla Festa di Père Laval, a settembre, in memoria dell'omonimo missionario cattolico. Oppure visitate i due piani del piccolo mercato di Port Louis, alle spalle del porto: al piano terra, frutta, verdura, pesce e spezie; al primo piano, tessuti e manufatti artigianali. Altrimenti potete fare un salto a Centre de Flacq, sulla costa orientale, e addentrarvi fra i colori e i profumi indiani del più grande mercato a cielo aperto dell'isola. Sempre sulla costa est c'è Trou d'Eau Douce, un piccolo villaggio da cui ci si può imbarcare per l'Ile aux Cerfs (l'"Isola dei Cervi"), luogo ideale per chi cerca la tranquillità di spiagge isolate, all'ombra degli alberi di casuarina.
Per quanto riguarda la cucina, Mauritius si distingue per il suo raffinato mix di sapori indiani e cinesi, con prevalenza di piatti speziati, serviti col curry, lo zafferano o in salse piccanti come il rogai. Il pesce da queste parti, è ovviamente l'ingrediente-sovrano. Fra le specialità, il marlin affumicato, dal gusto che ricorda il nostro pesce spada.
Quando e come partire per Mauritius? Il clima dell'isola è mite tutto l'anno, ma se cercate temperature più fresche (circa 24° durante il giorno), il periodo ideale è quello dell'inverno mauriziano, da maggio fino ad ottobre. Da novembre ad aprile, invece, le temperature toccano i 30°. I collegamenti con l'Italia sono garantiti da voli diretti settimanali della compagnia di bandiera Air Mauritius(da Milano) e da voli Eurofly (da Roma e Milano).
"Si ha quasi l'idea che Mauritius sia stata creata prima del paradiso e che quest'ultimo sia stato copiato da Mauritius", scriveva Mark Twain nel suo "Following the Equator", oltre un secolo fa.
"Si ha quasi l'idea che Mauritius sia stata creata prima del paradiso e che quest'ultimo sia stato copiato da Mauritius", scriveva Mark Twain nel suo "Following the Equator", oltre un secolo fa. Come lui, molti altri scrittori - da Bernardin de Saint-Pierre a Baudelaire e Conrad fino al moderno Jean-Marie Le Clézio - hanno decantato il fascino soprannaturale di questa meravigliosa perla dell'Oceano Indiano.
Che non è un arcipelago, come erroneamente molti pensano ("le Mauritius"…), ma un'isola, una piccola e splendida isola tropicale. Si trova lungo il 20° parallelo, a nord del Tropico del Capricorno, a soli 800 km dal Madagascar, e con i suoi 1865 kmq di superficie totale è circa 7 volte più piccola della Sardegna. Micro nelle dimensioni ma maxi nella sua ricchezza naturalistica, tutta concentrata in un fazzoletto delimitato da 330 km di coste circondate da una straordinaria barriera corallina.
Grand Baie, sulla costa nord, è una delle zone più turistiche di Mauritius: spiagge da cartolina e vita notturna garantiscono una vacanza all'insegna del divertimento a 360° (non a caso è definita "la Saint Tropez dell'Oceano Indiano"). Cap Malheureux, il punto più settentrionale dell'isola, ha invece la spiaggia maggiormente frequentata dai più giovani. E' nota perché vi sbarcarono gli inglesi nel 1810, durante l'attacco a Port Louis, capitale dell'isola. Di qui, all'orizzonte si può individuare il profilo di quattro isolotti, ognuno di per sé speciale: Coin de Mire, dalla conformazione che ricorda l'"angolo di mira" di un cannone, Ile Plate, sormontata da un faro suggestivo, Gabriel, "imprigionata" nella barriera corallina, e Ile Ronde, terra di fetonti, gechi e molti altri rettili.
Sempre sulla costa nord, ci sono Trou aux Biches (a circa 20 km a nord di Port Louis), caratteristico ex-villaggio di pescatori, e Pamplemousses, che ospita i meravigliosi Royal Botanical Gardens, istituiti nel lontano 1735; all'interno, insieme a 500 specie di piante esotiche, 80 varietà di palme, ninfee giganti e fiori di loto della specie Victoria Regia, si trova la chiesa più antica dell'isola.
Spostandosi ad ovest di Mauritius si trovano poi la baia di Tamarin, meta prediletta dei surfisti, e poco distante, le omonime e spettacolari cascate che fanno il paio con quelle del vicino villaggio di Chamarel. In questa zona, le origini vulcaniche del terreno regalano alla superficie effetti cromatici che vanno dal verde all'oro al rosso intenso. Più a nord si incontrano invece le abbaglianti spiagge bianche di Flic en Flac, nome francese che alcuni amano ricondurre al suono prodotto passeggiando sul bagnasciuga.
Imperdibile, nel cuore dell'area meridionale dell'isola, è il Black River Gorges National Park, una straordinaria riserva di oltre 6000 ettari di lussureggiante foresta. Natura rigogliosa e incontaminata è anche quella che popola gli 800 ettari della Val Riche Forest, popolata da cervi e ogni genere di bellezza floreale (siamo nella zona di Bel Ombre, ricca di piantagioni di canna da zucchero). Altri parchi naturali, perfetti per una pausa dalla vacanza balneare e un'immersione totale nel verde di Mauritius, sono quelli di Valle de Ferney e Domaine de L'Etoile. Si trovano entrambi a pochi chilometri da Mahébourg, la cittadina famosa oltre che per il suo Museo Navale, per i biscotti di manioca prodotti artigianalmente dalla biscotteria Rault. Da Mahébourg si possono organizzare escursioni alla volta delle isole Mouchoir Rouge e Ile Aux Aigrettes, altri diamanti di sabbia finissima, palme e mare color indaco.
Non solo relax e turismo baneare. Mauritius offre tantissimo anche agli amanti dell'attività sportiva. Oltre a immersioni, windsurf e pesca d'altura qui si può fare trekking nelle foreste, vivere le emozioni del canyoning (passare sotto le cascate Eau Bleu nell'estremo sud), percorrere l'intero perimetro dell'isola in bicicletta, andare a cavallo (il centro d'equitazione più importante è a Ecuries de la Vieille Cheminée) o praticare golf (con i suoi 12 campi, l'isola è la meta d'eccellenza dell'Oceano Indiano per i golfisti di tutto il mondo).
Per assaporare infine un po' del folclore e dei costumi dei mauriziani, conviene partecipare a una delle tante feste che ravvivano il calendario annuale, da quella induista dei colori (Holi) a quella di Maha Shivaratri, fino alla Festa di Père Laval, a settembre, in memoria dell'omonimo missionario cattolico. Oppure visitate i due piani del piccolo mercato di Port Louis, alle spalle del porto: al piano terra, frutta, verdura, pesce e spezie; al primo piano, tessuti e manufatti artigianali. Altrimenti potete fare un salto a Centre de Flacq, sulla costa orientale, e addentrarvi fra i colori e i profumi indiani del più grande mercato a cielo aperto dell'isola. Sempre sulla costa est c'è Trou d'Eau Douce, un piccolo villaggio da cui ci si può imbarcare per l'Ile aux Cerfs (l'"Isola dei Cervi"), luogo ideale per chi cerca la tranquillità di spiagge isolate, all'ombra degli alberi di casuarina.
Per quanto riguarda la cucina, Mauritius si distingue per il suo raffinato mix di sapori indiani e cinesi, con prevalenza di piatti speziati, serviti col curry, lo zafferano o in salse piccanti come il rogai. Il pesce da queste parti, è ovviamente l'ingrediente-sovrano. Fra le specialità, il marlin affumicato, dal gusto che ricorda il nostro pesce spada.
Quando e come partire per Mauritius? Il clima dell'isola è mite tutto l'anno, ma se cercate temperature più fresche (circa 24° durante il giorno), il periodo ideale è quello dell'inverno mauriziano, da maggio fino ad ottobre. Da novembre ad aprile, invece, le temperature toccano i 30°. I collegamenti con l'Italia sono garantiti da voli diretti settimanali della compagnia di bandiera Air Mauritius(da Milano) e da voli Eurofly (da Roma e Milano).
La deriva razzista dell’Europa
Volevano liberare il territorio patrio, e quello delle nazioni conquistate - il loro Lebensraum - dalla presenza degli ebrei; per impedire che gli contaminassero razza e costumi; ma non pensavano ancora allo sterminio. Prima avevano cercato di chiuderli nei ghetti: ma «loro» erano troppi e ancora troppo visibili. E si erano resi conto che con i pogrom - famoso è quello della notte dei cristalli - non avrebbero mai risolto il «loro» problema.
Poi avevano pensato di deportarli in un paese lontano, in Madagascar; ma era troppo difficile, soprattutto in tempo di guerra. Allora hanno cominciato a ucciderli dove li avevano appena rastrellati, fucilandoli sull'orlo delle fosse comuni che gli avevano fatto scavare. Ma lo spettacolo era sconvolgente e gli schizzi di sangue gli macchiavano le divise. Alla fine hanno inventato le camere a gas e i campi di sterminio: un sistema «asettico», dove hanno convogliato per sopprimerli sei milioni di ebrei. È la storia della Shoah.
Anche noi - sembra - dobbiamo preservare i nostri territori dall'invasione di popoli inferiori ed estranei alle nostre radici giudaico-cristiane. Prima abbiamo usato una legislazione ad hoc e le questure, equiparando la loro esistenza a un crimine e vessandoli in ogni modo con la speranza che se ne andassero. Non ha avuto successo. Poi abbiamo cominciato a internarli in vere e proprie galere, fingendo che fossero luoghi di transito. Ma le hanno riempite tutte subito; e gli altri sono rimasti fuori. Poi siamo andati a bruciare i loro campi e le loro catapecchie, sotto la guida della Lega nelle città del Nord e della camorra in quelle del Sud; o a radere al suolo con i bulldozer campi e fabbriche dismesse dove si insediano sotto la guida di molti sindaci sia del Nord che del Sud; ma ritornano sempre, accampandosi da qualche altra parte.
Per questo abbiamo pensato di affidare ai nostri dirimpettai del Mediterraneo, pagandoli, blandendoli e sottoponendoci a umilianti rituali - senza però mai trascurare gli affari - il compito di fermarli prima che toccassero il nostro bagnasciuga. Erano campi di sterminio quelli che finanziavamo, anche se lo sterminio era affidato alle angherie di svariate polizie e non a un'organizzazione scientifica come quella dei Lager. Poi la diga si è rotta e quelli che avevamo addestrato perché li bloccassero si sono messi ad organizzare le loro partenze in massa. Così ci siamo ritrovati in guerra contro il tiranno che avevamo blandito fino al giorno prima.
Abbiamo anche provato a rimandarli indietro: in aereo, in nave, in treno; o a spedirli oltre frontiera, sperando che se li prendesse qualcun altro; ma è come svuotare il mare con un secchiello. Alla fine qualcuno ha proposto di sparare direttamente sui barconi per affondarli: in un mare che nel corso degli anni ha già inghiottito trentamila migranti. Niente di più facile, d'altronde: sfiorano sui loro barconi con i motori in avaria le navi che bombardano le truppe di Gheddafi (ben armate, queste, dalla nostra industria bellica); e quelle nemmeno si accostano per raccoglierli. Quale sarà, allora, il prossimo passo di questa deriva?
La politica dei respingimenti è fallita sotto i nostri occhi. Il governo italiano aveva pensato di poterla perseguire per conto suo, in combutta con Gheddafi, per non renderne conto ai partner dell'Ue, a suo tempo definita «Forcolandia» per aver promosso una legislazione antirazzista sgradita alla Lega (bei tempi! Oggi l'Unione accetta senza fiatare la nuova costituzione ungherese, che del razzismo è un'epitome). Adesso il governo italiano piange perché i paesi che aveva appena finito di insultare non vogliono condividere il «fardello» caduto addosso al povero ministro Maroni, diventato in poco tempo il nemico numero uno della sua base più incarognita.
Ma sulle menzogne della politica dei respingimenti sono stati costruiti per anni successi politici truffaldini e maggioranze di governo ad personam. E carriere ancora più facili di quelle delle tante ragazze trasformate in ministro, parlamentare, consigliere regionale o dirigente politico per aver fatto sesso con Berlusconi.
Pensate al «Trota», il figlio di Bossi, diventato consigliere regionale dopo ben tre bocciature negli esamifici più screditati della Padania, che nel suo curriculum aveva solo un videogioco intitolato «Rimbalza il clandestino». Forse che - progressi tecnologici a parte - film e libri come Süss l'Ebreo, che hanno spianato la strada alla Shoah, avevano un'ispirazione diversa?
Purtroppo, in questa deriva l'Italia non è che l'avanguardia di un processo che sta investendo tutta l'Europa, mettendo alle corde tanto la sua politica (la capacità di scelte condivise), quanto il suo bagaglio culturale: esattamente come a suo tempo il razzismo antiebraico (largamente recepito sia ad est che ad ovest della Germania nazista) aveva sconfessato secoli di cultura tedesca e sprofondato il suo popolo in una vergogna che l'oblio non ha ancora sanato. L'Italia e l'Europa, peraltro, possono ancora incattivire parecchio: la strada verso una qualche «soluzione finale» è ancora lunga. Ma è già tracciata fin da quando Oriana Fallaci è assurta al ruolo di profeta della nuova Europa razzista.
Dunque è chiaro, anche se tutt'altro che evidente e condiviso, che al di là dei successi elettorali e delle facili carriere, la politica dei respingimenti non paga. Con essa l'Italia e l'Europa stanno rapidamente perdendo ogni posizione di vantaggio nell'arena della democrazia. L'alba di un rovesciamento delle parti già si intravvede: in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Barhein, in Algeria; forse persino in Yemen; là dove un popolo di giovani scolarizzati e disoccupati sta riuscendo in quello che in Italia non riusciamo più a fare e molti di noi nemmeno a sperare: liberarsi da una tirannia mascherata da democrazia: niente di molto diverso dai regimi di Ben Alì, Mubarak o Assad.
Ma la storia avrebbe potuto imboccare, e forse può ancora imboccare, un'altra strada. Se respingere è irrealizzabile, e le conseguenze sono un danno per tutti, bisogna attrezzarsi per accogliere. Agire come se vivessimo in un'unica grande «patria» (non la «nazione», continuamente invocata a sproposito da Ernesto Galli della Loggia; e nemmeno uno Stato, nazionale o sovranazionale, che è da tempo un organo senza più poteri, ma solo con funzioni di copertura e saccheggio); bensì un'area di relazioni in grado di arricchire tutti: chi è qui e chi resta là.
Una società dove a tutti venga offerto un ricovero e un'alimentazione decente (non sarebbe un grande sforzo: in Italia siamo soffocati dal cemento e buttiamo via quasi metà degli alimenti che compriamo). Un'integrazione fondata sull'accesso alla scuola e all'educazione di tutti, fornita dei supporti necessari per fare di ogni allievo, bimbo, giovane o adulto, un veicolo di reciproca accettazione. Un'economia aperta a tutti su un piede di parità: dove venga meno la possibilità di sfruttare il lavoro irregolare, ma anche il «vantaggio competitivo» di chi lavora in condizioni e per salari indecenti perché è irregolare (nella clandestinità c'è sempre posto per tutti; anche ai livelli di vita più degradati; per questo è una «calamita» di disperati. Ma quando si aprono le porte agli ingressi è possibile che molti, ai rischi di una traversata pericolosa preferiscano aspettare un secondo turno, se turni ci sono; anche se i turni, ovviamente, non sono la risposta ai problemi più urgenti).
E poi, una produzione sostenibile e replicabile: per poter fare anche là, senza dipendere più di tanto da aiuti o capitali stranieri, quello che si potrebbe imparare a fare qua: con le energie rinnovabili, la piena utilizzazione delle risorse locali, la sovranità alimentare, la cura del territorio, la valorizzazione del patrimonio culturale; tante «cose» che rendono produttivi anche e soprattutto i rapporti interpersonali. Non ci sono solo profughi alla ricerca di un futuro; ci sono anche molti migranti che hanno imparato un mestiere, costruito un'impresa, creato una rete di relazioni; pronti a riportare nel paese di origine il piccolo o grande «capitale umano» che hanno acquisito. Certo sono meno di quelli che arrivano; ma possono essere un vettore di uno «sviluppo più sostenibile», che nessun programma di cooperazione ministeriale potrà mai realizzare.
Un approccio del genere è mancato per una nostra debolezza culturale. Eppure avrebbe potuto accelerare la democratizzazione in corso in molti paesi del Mediterraneo; rallentare la spinta all'emigrazione (forse non quella sospinta dalla miseria e dalle guerre; ma certamente quella promossa dalla curiosità per una vita diversa); promuovere desideri di un ritorno in patria in migranti portatori di un nuovo corredo di professionalità, di conoscenze, di esperienze e persino di capitali. Soprattutto, avrebbe potuto, e ancora potrebbe, fare dell'Europa e del bacino del Mediterraneo un'unica grande comunità.
di Guido Viale - Il manifesto - COMetA - Trimestrale di critica della comunicazione
Poi avevano pensato di deportarli in un paese lontano, in Madagascar; ma era troppo difficile, soprattutto in tempo di guerra. Allora hanno cominciato a ucciderli dove li avevano appena rastrellati, fucilandoli sull'orlo delle fosse comuni che gli avevano fatto scavare. Ma lo spettacolo era sconvolgente e gli schizzi di sangue gli macchiavano le divise. Alla fine hanno inventato le camere a gas e i campi di sterminio: un sistema «asettico», dove hanno convogliato per sopprimerli sei milioni di ebrei. È la storia della Shoah.
Anche noi - sembra - dobbiamo preservare i nostri territori dall'invasione di popoli inferiori ed estranei alle nostre radici giudaico-cristiane. Prima abbiamo usato una legislazione ad hoc e le questure, equiparando la loro esistenza a un crimine e vessandoli in ogni modo con la speranza che se ne andassero. Non ha avuto successo. Poi abbiamo cominciato a internarli in vere e proprie galere, fingendo che fossero luoghi di transito. Ma le hanno riempite tutte subito; e gli altri sono rimasti fuori. Poi siamo andati a bruciare i loro campi e le loro catapecchie, sotto la guida della Lega nelle città del Nord e della camorra in quelle del Sud; o a radere al suolo con i bulldozer campi e fabbriche dismesse dove si insediano sotto la guida di molti sindaci sia del Nord che del Sud; ma ritornano sempre, accampandosi da qualche altra parte.
Per questo abbiamo pensato di affidare ai nostri dirimpettai del Mediterraneo, pagandoli, blandendoli e sottoponendoci a umilianti rituali - senza però mai trascurare gli affari - il compito di fermarli prima che toccassero il nostro bagnasciuga. Erano campi di sterminio quelli che finanziavamo, anche se lo sterminio era affidato alle angherie di svariate polizie e non a un'organizzazione scientifica come quella dei Lager. Poi la diga si è rotta e quelli che avevamo addestrato perché li bloccassero si sono messi ad organizzare le loro partenze in massa. Così ci siamo ritrovati in guerra contro il tiranno che avevamo blandito fino al giorno prima.
Abbiamo anche provato a rimandarli indietro: in aereo, in nave, in treno; o a spedirli oltre frontiera, sperando che se li prendesse qualcun altro; ma è come svuotare il mare con un secchiello. Alla fine qualcuno ha proposto di sparare direttamente sui barconi per affondarli: in un mare che nel corso degli anni ha già inghiottito trentamila migranti. Niente di più facile, d'altronde: sfiorano sui loro barconi con i motori in avaria le navi che bombardano le truppe di Gheddafi (ben armate, queste, dalla nostra industria bellica); e quelle nemmeno si accostano per raccoglierli. Quale sarà, allora, il prossimo passo di questa deriva?
La politica dei respingimenti è fallita sotto i nostri occhi. Il governo italiano aveva pensato di poterla perseguire per conto suo, in combutta con Gheddafi, per non renderne conto ai partner dell'Ue, a suo tempo definita «Forcolandia» per aver promosso una legislazione antirazzista sgradita alla Lega (bei tempi! Oggi l'Unione accetta senza fiatare la nuova costituzione ungherese, che del razzismo è un'epitome). Adesso il governo italiano piange perché i paesi che aveva appena finito di insultare non vogliono condividere il «fardello» caduto addosso al povero ministro Maroni, diventato in poco tempo il nemico numero uno della sua base più incarognita.
Ma sulle menzogne della politica dei respingimenti sono stati costruiti per anni successi politici truffaldini e maggioranze di governo ad personam. E carriere ancora più facili di quelle delle tante ragazze trasformate in ministro, parlamentare, consigliere regionale o dirigente politico per aver fatto sesso con Berlusconi.
Pensate al «Trota», il figlio di Bossi, diventato consigliere regionale dopo ben tre bocciature negli esamifici più screditati della Padania, che nel suo curriculum aveva solo un videogioco intitolato «Rimbalza il clandestino». Forse che - progressi tecnologici a parte - film e libri come Süss l'Ebreo, che hanno spianato la strada alla Shoah, avevano un'ispirazione diversa?
Purtroppo, in questa deriva l'Italia non è che l'avanguardia di un processo che sta investendo tutta l'Europa, mettendo alle corde tanto la sua politica (la capacità di scelte condivise), quanto il suo bagaglio culturale: esattamente come a suo tempo il razzismo antiebraico (largamente recepito sia ad est che ad ovest della Germania nazista) aveva sconfessato secoli di cultura tedesca e sprofondato il suo popolo in una vergogna che l'oblio non ha ancora sanato. L'Italia e l'Europa, peraltro, possono ancora incattivire parecchio: la strada verso una qualche «soluzione finale» è ancora lunga. Ma è già tracciata fin da quando Oriana Fallaci è assurta al ruolo di profeta della nuova Europa razzista.
Dunque è chiaro, anche se tutt'altro che evidente e condiviso, che al di là dei successi elettorali e delle facili carriere, la politica dei respingimenti non paga. Con essa l'Italia e l'Europa stanno rapidamente perdendo ogni posizione di vantaggio nell'arena della democrazia. L'alba di un rovesciamento delle parti già si intravvede: in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Barhein, in Algeria; forse persino in Yemen; là dove un popolo di giovani scolarizzati e disoccupati sta riuscendo in quello che in Italia non riusciamo più a fare e molti di noi nemmeno a sperare: liberarsi da una tirannia mascherata da democrazia: niente di molto diverso dai regimi di Ben Alì, Mubarak o Assad.
Ma la storia avrebbe potuto imboccare, e forse può ancora imboccare, un'altra strada. Se respingere è irrealizzabile, e le conseguenze sono un danno per tutti, bisogna attrezzarsi per accogliere. Agire come se vivessimo in un'unica grande «patria» (non la «nazione», continuamente invocata a sproposito da Ernesto Galli della Loggia; e nemmeno uno Stato, nazionale o sovranazionale, che è da tempo un organo senza più poteri, ma solo con funzioni di copertura e saccheggio); bensì un'area di relazioni in grado di arricchire tutti: chi è qui e chi resta là.
Una società dove a tutti venga offerto un ricovero e un'alimentazione decente (non sarebbe un grande sforzo: in Italia siamo soffocati dal cemento e buttiamo via quasi metà degli alimenti che compriamo). Un'integrazione fondata sull'accesso alla scuola e all'educazione di tutti, fornita dei supporti necessari per fare di ogni allievo, bimbo, giovane o adulto, un veicolo di reciproca accettazione. Un'economia aperta a tutti su un piede di parità: dove venga meno la possibilità di sfruttare il lavoro irregolare, ma anche il «vantaggio competitivo» di chi lavora in condizioni e per salari indecenti perché è irregolare (nella clandestinità c'è sempre posto per tutti; anche ai livelli di vita più degradati; per questo è una «calamita» di disperati. Ma quando si aprono le porte agli ingressi è possibile che molti, ai rischi di una traversata pericolosa preferiscano aspettare un secondo turno, se turni ci sono; anche se i turni, ovviamente, non sono la risposta ai problemi più urgenti).
E poi, una produzione sostenibile e replicabile: per poter fare anche là, senza dipendere più di tanto da aiuti o capitali stranieri, quello che si potrebbe imparare a fare qua: con le energie rinnovabili, la piena utilizzazione delle risorse locali, la sovranità alimentare, la cura del territorio, la valorizzazione del patrimonio culturale; tante «cose» che rendono produttivi anche e soprattutto i rapporti interpersonali. Non ci sono solo profughi alla ricerca di un futuro; ci sono anche molti migranti che hanno imparato un mestiere, costruito un'impresa, creato una rete di relazioni; pronti a riportare nel paese di origine il piccolo o grande «capitale umano» che hanno acquisito. Certo sono meno di quelli che arrivano; ma possono essere un vettore di uno «sviluppo più sostenibile», che nessun programma di cooperazione ministeriale potrà mai realizzare.
Un approccio del genere è mancato per una nostra debolezza culturale. Eppure avrebbe potuto accelerare la democratizzazione in corso in molti paesi del Mediterraneo; rallentare la spinta all'emigrazione (forse non quella sospinta dalla miseria e dalle guerre; ma certamente quella promossa dalla curiosità per una vita diversa); promuovere desideri di un ritorno in patria in migranti portatori di un nuovo corredo di professionalità, di conoscenze, di esperienze e persino di capitali. Soprattutto, avrebbe potuto, e ancora potrebbe, fare dell'Europa e del bacino del Mediterraneo un'unica grande comunità.
di Guido Viale - Il manifesto - COMetA - Trimestrale di critica della comunicazione
Il Madagascar del sud tra parco isalo e isole disabitate
La durezza del Parco Isalo, dalle insolite forme rocciose e la bellezza del mare e delle isole ancora incontaminate
Il Madagascar come non si è mai visto: lo propone Il Diamante in questo itinerario «Non solo mare: Madagascar del Sud» che si svolge in un’area poco nota perché di solito i soggiorni balneari sono sempre previsti a Nosy Be, nel Nord. Il Diamante invece invita a scoprire un volto diverso del Madagascar, abbinando due elementi estremi in questo tour, la durezza del Parco Isalo, dalle insolite forme rocciose e la bellezza del mare e delle isole ancora incontaminate.Il massiccio granitico che svetta in mezzo alla prateria molto simile alla savana africana, risalente all’epoca giurassica, offre un ecosistema unico di canyon di argentaria, baobab nani, piccoli corsi d’acqua che formano piscine naturali. La sistemazione è prevista all’esclusivo Isalo Rock Lodge, da dove si osservano indimenticabili tramonti.
La parte mare prevede escursioni dall’Anakao Ocean Lodge, situato in un’incantevole baia a mezza luna, alle isole. Nosy Satrana, completamente disabitata si trova all’interno della barriera corallina, un piccolo gioiello dalle spiagge immacolate, ideale per snorkeling e per immersioni. Nosy Ve, antico covo di pirati, oggi Riserva Marina protetta, con un mare che cambia colore a ogni ora del giorno. Qui nidificano i Phaetons, uccelli unici in Madagascar, amati e protetti dalla popolazione.
Da non perdere sulla terra ferma, una visita al parco di Tsimanampetsotsa con il lago salato abitato da fenicotteri e altri volatili.
Il sud del Paese è ideale per chi ama il kite surf o il windsurf: i pomeriggi sono sempre ventosi.
Il Madagascar come non si è mai visto: lo propone Il Diamante in questo itinerario «Non solo mare: Madagascar del Sud» che si svolge in un’area poco nota perché di solito i soggiorni balneari sono sempre previsti a Nosy Be, nel Nord. Il Diamante invece invita a scoprire un volto diverso del Madagascar, abbinando due elementi estremi in questo tour, la durezza del Parco Isalo, dalle insolite forme rocciose e la bellezza del mare e delle isole ancora incontaminate.Il massiccio granitico che svetta in mezzo alla prateria molto simile alla savana africana, risalente all’epoca giurassica, offre un ecosistema unico di canyon di argentaria, baobab nani, piccoli corsi d’acqua che formano piscine naturali. La sistemazione è prevista all’esclusivo Isalo Rock Lodge, da dove si osservano indimenticabili tramonti.
La parte mare prevede escursioni dall’Anakao Ocean Lodge, situato in un’incantevole baia a mezza luna, alle isole. Nosy Satrana, completamente disabitata si trova all’interno della barriera corallina, un piccolo gioiello dalle spiagge immacolate, ideale per snorkeling e per immersioni. Nosy Ve, antico covo di pirati, oggi Riserva Marina protetta, con un mare che cambia colore a ogni ora del giorno. Qui nidificano i Phaetons, uccelli unici in Madagascar, amati e protetti dalla popolazione.
Da non perdere sulla terra ferma, una visita al parco di Tsimanampetsotsa con il lago salato abitato da fenicotteri e altri volatili.
Il sud del Paese è ideale per chi ama il kite surf o il windsurf: i pomeriggi sono sempre ventosi.
Marco Marcelli, professore di endocrinologia Chiara Gabbi, medico ricercatore
al Baylor College of Medicine di Houston (Usa)
Marco Marcelli
Anno di emigrazione: 1986.
Città italiana in cui è nato: Perugia.
Città americana in cui lavora: Houston.
Istituzione: Baylor College of Medicine.
Posizione: professore.
Tipo di lavoro: medico (endocrinologo) e ricercatore.
Che cosa ti ha fatto emigrare dall’Italia?
Sin dai primi anni della facoltà di medicina ho capito che volevo fare la carriera universitaria. Le opportunità erano minime, e ai tempi c’era una fila infinita di pretendenti. Dopo un po’ ho capito che se volevo realizzare i miei sogni in Italia, avrei dovuto aspettare come minimo fino ai quarant’anni, e al quel punto ho deciso di andarmene.
Come si vive facendo il medico/ricercatore all’estero?
Professionalmente si vive bene. Si è immersi in una forte cultura scientifica, c’è la sensazione che non esista un limite a quello che si può fare. Si è circondati da esperti in qualsiasi ramo della medicina (per coloro che praticano la professione medica), o da esperti di qualsiasi ramo delle scienze di base, per quelli che sono interessati ad una carriera di laboratorio. La grande maggioranza delle persone sono molto gentili e disponibili a insegnarti qualcosa o a collaborare con te. Bisogna realizzare che dal momento in cui si raggiunge una posizione di faculty, che sarebbe dall’assistant professor in su, uno deve portare fondi esterni per poter svolgere la propria ricerca. Il dogma è che bisogna pubblicare, in altre parole essere scientificamente prolifici, per poi competere per questi fondi esterni (grants). Rimanere in accademia con successo non è quindi facile, bisogna avere passione, determinazione, ottimismo, e saperci fare con la gente. Al di fuori dell’ambiente di lavoro si vive bene, gli americani sono per la gran parte brave persone. Da espatriati si vive meglio in grandi aree metropolitane piuttosto che in piccoli centri rurali.
Ritorneresti in Italia? Se sì, credi che potresti fare lo stesso lavoro?
Credo che sia passato troppo tempo per tornare in maniera definitiva. E poi, a questo punto della mia carriera, sarebbe difficile trovare un lavoro equivalente in Italia. Un altro punto importante –forse il più importante- è che i miei figli sono americani. Vorrei chiarire che in Italia vengo spesso, e ogni volta mi trovo come se non fossi mai partito. Ma per varie ragioni, non solo di tipo professionale, so che negli anni a venire la mia base sarà negli USA. Anche se in Italia ci tornerò sempre, almeno fino a quando mi sarà fisicamente possibile.
Cosa pensi del mondo accademico italiano?
Alcuni concetti generali.
In Italia si va all’università praticamente senza spendere una lira, e questo è un grande merito della nostra nazione. Ho speso per l’educazione scolastica – scolastica non universitaria- dei miei due figli centinaia di migliaia di dollari. Sono quindi convinto che avere una ottima scuola e università a disposizione del pubblico rappresenta una grande servizio per i cittadini di un paese. Bisogna sperare che i nostri governanti se ne rendano conto, e non vengano attratti da chimere come quella di favorire l’educazione privata rispetto a quella pubblica. Il mondo accademico italiano è più o meno all’ottavo-nono posto nel mondo come gettito scientifico, questo vuol dire che da noi c’è molto talento.
L’università (italiana e non) deve adeguarsi al fatto che viviamo nel ventunesimo secolo. Per la realizzazione di questo salto di qualità credo che quelli che hanno passato anni a studiare fuori, che hanno sviluppato un immenso patrimonio di esperienze scientifiche ed amministrative in posti stranieri di alto livello, possono essere di grande aiuto.
Se lavorassi in Italia… mi vengono in mente tre importanti idee da sviluppare. Primo, istituire una infrastruttura che faciliti la creazione di aziende che si originano da idee sviluppate nel mondo accademico, e forme di alleanza con capitali che provengono dal mondo privato per favorirne lo sviluppo. Secondo, creare le condizioni culturali affinché i super ricchi lascino fondi alla ricerca scientifica. In altre parole, vorrei far capire a molti che essere il più ricco del cimitero sotto casa non è vantaggioso per nessuno. Negli USA una delle organizzazioni filantropiche che ha contribuito maggiormente alla creazione di ricchezza scientifica e l’HHMI (Howard Hughes Medical Institute). Il suo fondatore, Howard Hughes che fra l’altro era di Houston, è morto nel 1975, ma il suo lascito non finirà mai di aiutare il mondo scientifico. Terzo, vorrei che ogni università abbia una struttura per identificare le persone di talento e che le guidi in modo che possano esprimere tutte le loro potenzialità.
Cosa consigli ai giovani ricercatori che sono all’estero?
Prima di tutto consiglio a tutti i giovani interessati alla carriera accademica che non sono all’estero di farsi una esperienza all’estero. Uno dei prerequisiti per fare l’universitario nel 2010 dovrebbe essere di aver passato almeno tre anni in un centro accademico straniero di eccellenza. Se uno non se la sente, allora dovrebbe cambiare mestiere. Ai giovani ricercatori che sono all’estero consiglio di avere grandi sogni, di crederci, e di lavorare in maniera intelligente ed efficiente per realizzarli. Una volta che quel sogno si è realizzato, bisogna partire con un altro sogno. Se c’è una cosa che ho imparato con il tempo e l’esperienza, è che non esiste un sogno che sia troppo grande, e che i sogni ti danno ottimismo, determinazione e valori positivi.
Chiara Gabbi
Anno di emigrazione: 2006.
Città italiana in cui è nata: Reggio Emilia.
Città Americana in cui lavora: Houston.
Istituzione: University of Houston .
Posizione: Research associate.
Tipo di lavoro: medico ricercatore.
Che cosa ti ha fatto emigrare dall’Italia?
Il bisogno di cercare risposte con una ricerca ad alto livello che purtroppo non poteva essere raggiunto in Italia.
Come si vive facendo il medico/ricercatore all’estero?
Si vive con tanta nostalgia, ma anche con molte soddisfazioni. La qualità del lavoro credo dipenda molto dal paese ospitante. Sono all’estero da quattro anni, divisi tra Stoccolma e Houston. La Svezia vanta una favolosa e invidiabile organizzazione e un sistema sociale che facilitano estremamente la vita professionale e privata specialmente del ricercatore. Gli Stati Uniti mancano di una rete di tutela in questo senso. Il lavoro è la priorità numero uno e come tale è dove abbondano le maggiori opportunità in termini di risorse sia di crescita professionale sia finanziarie.
Ci ritorneresti in Italia? Se sì, credi che potresti fare lo stesso lavoro?
Sì, ritornerei in Italia, ma a patto di poter costruire opportunità e supporti per raggiungere il livello professionale più vicino possibile all’attuale.
Cosa pensi del mondo accademico italiano?
Sono profondamente grata al mondo accademico italiano per la mia formazione che credo sia stata a ottimi livelli dal corso di laurea in medicina fino alla specializzazione. Abbiamo una tradizione medica italiana di cui possiamo davvero vantarci. Ma purtroppo, in tanti casi, rimane solo una brillante tradizione. Abbiamo bisogno d’innovazione! Innovazione che credo solo la ricerca possa dare. Purtroppo la ricerca accademica italiana è percorsa da numerose – e ben note – ferite (inutile elencarle), dalla carenza di fondi alla scarsa meritocrazia. Urge innovazione. Innovazione della ricerca e dell’università che credo possa avvenire solo grazie a noi, italiani, ricercatori all’estero.
Penso all’enorme bagaglio di esperienza e conoscenza che abbiamo ricevuto dalle istituzioni straniere e credo davvero che sia una sorta di “dovere morale” metterlo a disposizione per la crescita del nostro Paese. Come? Immagino due vie. Bisognerebbe dare una sorta di istituzionalizzazione alla presenza dei numerosissimi ricercatori italiani all’estero. Dobbiamo avere un ponte diretto non solo con il ministero degli Esteri (che in molti casi esiste già, grazie ad ambasciate e consolati) ma anche e soprattutto con il ministero dell’Università’ e della Ricerca. La nostra esperienza ha un valore inestimabile per la riforma dell’università. Inoltre, credo che più che al “ri-entro” dei cervelli si debba lavorare ad un ‘ri-circolo” dei cervelli. Mi piace pensare a circuiti istituzionalizzati in cui a fianco di una salda posizione all’estero venga offerta la possibilità di un ricircolo in Italia con ricerca o attività clinica o docenza nelle nostre università di origine. Un’opportunità importante per condividere sul campo italiano anni di lavoro ed esperienza all’estero.
Fammi un paragone fra la ricerca in Svezia e negli USA. Tre cose che ti piacciono di più della Svezia e tre che ti piacciono di più degli USA.
Il mondo svedese vanta un’efficientissima organizzazione non solo accademica (1) ma anche sociale (2), di ritmi lavorativi abbastanza elastici (3) che risultano estremamente preziosi soprattutto per chi ha famiglia.
Negli USA abbondano le opportunità di collaborazione scientifica (1), di crescita professionale (2) e di finanziamenti (3) per supportare le ricerche soprattutto grazie ai privati.
Marco Marcelli
Anno di emigrazione: 1986.
Città italiana in cui è nato: Perugia.
Città americana in cui lavora: Houston.
Istituzione: Baylor College of Medicine.
Posizione: professore.
Tipo di lavoro: medico (endocrinologo) e ricercatore.
Che cosa ti ha fatto emigrare dall’Italia?
Sin dai primi anni della facoltà di medicina ho capito che volevo fare la carriera universitaria. Le opportunità erano minime, e ai tempi c’era una fila infinita di pretendenti. Dopo un po’ ho capito che se volevo realizzare i miei sogni in Italia, avrei dovuto aspettare come minimo fino ai quarant’anni, e al quel punto ho deciso di andarmene.
Come si vive facendo il medico/ricercatore all’estero?
Professionalmente si vive bene. Si è immersi in una forte cultura scientifica, c’è la sensazione che non esista un limite a quello che si può fare. Si è circondati da esperti in qualsiasi ramo della medicina (per coloro che praticano la professione medica), o da esperti di qualsiasi ramo delle scienze di base, per quelli che sono interessati ad una carriera di laboratorio. La grande maggioranza delle persone sono molto gentili e disponibili a insegnarti qualcosa o a collaborare con te. Bisogna realizzare che dal momento in cui si raggiunge una posizione di faculty, che sarebbe dall’assistant professor in su, uno deve portare fondi esterni per poter svolgere la propria ricerca. Il dogma è che bisogna pubblicare, in altre parole essere scientificamente prolifici, per poi competere per questi fondi esterni (grants). Rimanere in accademia con successo non è quindi facile, bisogna avere passione, determinazione, ottimismo, e saperci fare con la gente. Al di fuori dell’ambiente di lavoro si vive bene, gli americani sono per la gran parte brave persone. Da espatriati si vive meglio in grandi aree metropolitane piuttosto che in piccoli centri rurali.
Ritorneresti in Italia? Se sì, credi che potresti fare lo stesso lavoro?
Credo che sia passato troppo tempo per tornare in maniera definitiva. E poi, a questo punto della mia carriera, sarebbe difficile trovare un lavoro equivalente in Italia. Un altro punto importante –forse il più importante- è che i miei figli sono americani. Vorrei chiarire che in Italia vengo spesso, e ogni volta mi trovo come se non fossi mai partito. Ma per varie ragioni, non solo di tipo professionale, so che negli anni a venire la mia base sarà negli USA. Anche se in Italia ci tornerò sempre, almeno fino a quando mi sarà fisicamente possibile.
Cosa pensi del mondo accademico italiano?
Alcuni concetti generali.
In Italia si va all’università praticamente senza spendere una lira, e questo è un grande merito della nostra nazione. Ho speso per l’educazione scolastica – scolastica non universitaria- dei miei due figli centinaia di migliaia di dollari. Sono quindi convinto che avere una ottima scuola e università a disposizione del pubblico rappresenta una grande servizio per i cittadini di un paese. Bisogna sperare che i nostri governanti se ne rendano conto, e non vengano attratti da chimere come quella di favorire l’educazione privata rispetto a quella pubblica. Il mondo accademico italiano è più o meno all’ottavo-nono posto nel mondo come gettito scientifico, questo vuol dire che da noi c’è molto talento.
L’università (italiana e non) deve adeguarsi al fatto che viviamo nel ventunesimo secolo. Per la realizzazione di questo salto di qualità credo che quelli che hanno passato anni a studiare fuori, che hanno sviluppato un immenso patrimonio di esperienze scientifiche ed amministrative in posti stranieri di alto livello, possono essere di grande aiuto.
Se lavorassi in Italia… mi vengono in mente tre importanti idee da sviluppare. Primo, istituire una infrastruttura che faciliti la creazione di aziende che si originano da idee sviluppate nel mondo accademico, e forme di alleanza con capitali che provengono dal mondo privato per favorirne lo sviluppo. Secondo, creare le condizioni culturali affinché i super ricchi lascino fondi alla ricerca scientifica. In altre parole, vorrei far capire a molti che essere il più ricco del cimitero sotto casa non è vantaggioso per nessuno. Negli USA una delle organizzazioni filantropiche che ha contribuito maggiormente alla creazione di ricchezza scientifica e l’HHMI (Howard Hughes Medical Institute). Il suo fondatore, Howard Hughes che fra l’altro era di Houston, è morto nel 1975, ma il suo lascito non finirà mai di aiutare il mondo scientifico. Terzo, vorrei che ogni università abbia una struttura per identificare le persone di talento e che le guidi in modo che possano esprimere tutte le loro potenzialità.
Cosa consigli ai giovani ricercatori che sono all’estero?
Prima di tutto consiglio a tutti i giovani interessati alla carriera accademica che non sono all’estero di farsi una esperienza all’estero. Uno dei prerequisiti per fare l’universitario nel 2010 dovrebbe essere di aver passato almeno tre anni in un centro accademico straniero di eccellenza. Se uno non se la sente, allora dovrebbe cambiare mestiere. Ai giovani ricercatori che sono all’estero consiglio di avere grandi sogni, di crederci, e di lavorare in maniera intelligente ed efficiente per realizzarli. Una volta che quel sogno si è realizzato, bisogna partire con un altro sogno. Se c’è una cosa che ho imparato con il tempo e l’esperienza, è che non esiste un sogno che sia troppo grande, e che i sogni ti danno ottimismo, determinazione e valori positivi.
Chiara Gabbi
Anno di emigrazione: 2006.
Città italiana in cui è nata: Reggio Emilia.
Città Americana in cui lavora: Houston.
Istituzione: University of Houston .
Posizione: Research associate.
Tipo di lavoro: medico ricercatore.
Che cosa ti ha fatto emigrare dall’Italia?
Il bisogno di cercare risposte con una ricerca ad alto livello che purtroppo non poteva essere raggiunto in Italia.
Come si vive facendo il medico/ricercatore all’estero?
Si vive con tanta nostalgia, ma anche con molte soddisfazioni. La qualità del lavoro credo dipenda molto dal paese ospitante. Sono all’estero da quattro anni, divisi tra Stoccolma e Houston. La Svezia vanta una favolosa e invidiabile organizzazione e un sistema sociale che facilitano estremamente la vita professionale e privata specialmente del ricercatore. Gli Stati Uniti mancano di una rete di tutela in questo senso. Il lavoro è la priorità numero uno e come tale è dove abbondano le maggiori opportunità in termini di risorse sia di crescita professionale sia finanziarie.
Ci ritorneresti in Italia? Se sì, credi che potresti fare lo stesso lavoro?
Sì, ritornerei in Italia, ma a patto di poter costruire opportunità e supporti per raggiungere il livello professionale più vicino possibile all’attuale.
Cosa pensi del mondo accademico italiano?
Sono profondamente grata al mondo accademico italiano per la mia formazione che credo sia stata a ottimi livelli dal corso di laurea in medicina fino alla specializzazione. Abbiamo una tradizione medica italiana di cui possiamo davvero vantarci. Ma purtroppo, in tanti casi, rimane solo una brillante tradizione. Abbiamo bisogno d’innovazione! Innovazione che credo solo la ricerca possa dare. Purtroppo la ricerca accademica italiana è percorsa da numerose – e ben note – ferite (inutile elencarle), dalla carenza di fondi alla scarsa meritocrazia. Urge innovazione. Innovazione della ricerca e dell’università che credo possa avvenire solo grazie a noi, italiani, ricercatori all’estero.
Penso all’enorme bagaglio di esperienza e conoscenza che abbiamo ricevuto dalle istituzioni straniere e credo davvero che sia una sorta di “dovere morale” metterlo a disposizione per la crescita del nostro Paese. Come? Immagino due vie. Bisognerebbe dare una sorta di istituzionalizzazione alla presenza dei numerosissimi ricercatori italiani all’estero. Dobbiamo avere un ponte diretto non solo con il ministero degli Esteri (che in molti casi esiste già, grazie ad ambasciate e consolati) ma anche e soprattutto con il ministero dell’Università’ e della Ricerca. La nostra esperienza ha un valore inestimabile per la riforma dell’università. Inoltre, credo che più che al “ri-entro” dei cervelli si debba lavorare ad un ‘ri-circolo” dei cervelli. Mi piace pensare a circuiti istituzionalizzati in cui a fianco di una salda posizione all’estero venga offerta la possibilità di un ricircolo in Italia con ricerca o attività clinica o docenza nelle nostre università di origine. Un’opportunità importante per condividere sul campo italiano anni di lavoro ed esperienza all’estero.
Fammi un paragone fra la ricerca in Svezia e negli USA. Tre cose che ti piacciono di più della Svezia e tre che ti piacciono di più degli USA.
Il mondo svedese vanta un’efficientissima organizzazione non solo accademica (1) ma anche sociale (2), di ritmi lavorativi abbastanza elastici (3) che risultano estremamente preziosi soprattutto per chi ha famiglia.
Negli USA abbondano le opportunità di collaborazione scientifica (1), di crescita professionale (2) e di finanziamenti (3) per supportare le ricerche soprattutto grazie ai privati.
Incredibile MADAGASCAR !
Le sorprese non finiscono mai !
Da Mahajanga Agostino Montalti di Tartaclub
Questa mattina, appena uscito dalla camera che guarda sul mare, mi sento chiamare dal figlio del proprietario dell'albergo che ormai per lui sono "l'uomo tartaruga". Era agitato e continuava a dire Tortue, Tortue!!! Era sulla duna che divide l'albergo dal mare e indicava verso un bacino di acqua stagna e putrida che si è formato fra l'albergo e la duna di sabbia prima del mare, causa uno scolo che lo riempie quando piove. Sorpresa, c'erano tante piccolissime tartarughine marine che nuotavano in questo stagno e lui le rincorreva.Ovviamente come prima cosa, di corsa per prendere la macchina fotografica e poi anch'io a correre dietro alle piccole. Dopo il recupero di un pò di esemplari, abbiamo iniziato a guardarci attorno e cercare il nido per capire da dove provenivano, e in affetti i segni sulla spiaggia non lasciavano dubbi, il nido era lì vicino e la curiosità è troppo forte e inizio a scavare nel nido, credendo che ormai fossero tutte uscite, ma invece con grande sorpresa vi erano ancora alcuni esemplari che con fatica cercavano di uscire dal profondo nido. Piano piano le ho aiutate ad uscire, fino a trovare la zona con i tanti gusci di uovo rotti, oltre ad uno ancora intatto che ho lasciato lì e ricoperto con la sabbia. Incredibilmente il nido era d'avanti all'albergo in pieno centro città. Solo che c'era un'anomalia, le piccole una volta uscite dal nido hanno preso la via opposta, puntando il bacino di acqua dolce e qui si sono bloccate essendo una specie di trappola per loro. Forse confuse dalle luci dei lampioni notturni si sono dirette verso terra, trovando la grande pozza. Ne abbiamo trovate almeno una trentina, di cui alcune ancora dentro il nido, più un uovo ancora non schiuso che ho riposto nel nido e ricoperto con la sabbia. Poi il proprietario dell'albergo le ha inserite provvisoriamente nel grande acquario marino, nel boreau, che aveva da pochi giorni allestito, ma poco dopo preso dall'ansia di vedere queste piccole creature dimenarsi continuamente e non sapendo come alimentarle, la sera al ritorno me le sono ritrovate in un contenitore con solo un centimetro di acqua. La mattina successiva, appena arrivato nella terrazza che guarda sul mare, per la colazione, mi vedo gironzolare in mezzo ai tavoli un'altra tartarughina che prontamente prelevo e porto nel contenitore con le altre e mi viene detto che la mia idea del giorno precedente di mettere una piccola taglia su ogni esemplare ritrovato, ha funzionato al punto che ci hanno portato altri 17 esemplari e così in totale il recupero è di 53 bellissime Caretta caretta.
Riesco a convincere il proprietario ad effettuare il rilascio non come voleva fare lui in mare aperto e di giorno, ma in spiaggia e di sera dopo il tramonto. L'operazione, a rispetto dei ritmi malgasci, è iniziata con qualche ora di ritardo e con un piccolo seguito di turisti incuriositi dell'evento.
La mancanza della luna, quindi con luce molto scarsa, fa pensare al figlio del proprietario di portare il suo grosso fuoristrada sulla spiaggia, con i fari puntati sul mare, allo scopo di illuminare il presunto percorso, ma l'effetto è che le piccole, appena appoggiate sulla spiaggia, si sono immediatamente rivolte verso i fari della vettura, in direzione contraria al mare, quindi abbiamo spento i fari e utilizzato le torce elettriche che indicavano la giusta strada verso il mare. Esperienza indimenticabile vedere le piccole tartarughe sparire fra la schiuma delle onde, animate da una vitalità davvero incredibile,
Con la speranza che qualcuna di queste bellissime creature fra 20-25 anni ce la faccia a ritornare su questa spiaggia a continuare il ciclo della vita e magari dare la possibilità a qualche altro eco-turista di vivere la bella esperienza vissuta da noi pochi fortunati che siamo capitati in mezzo al percorso millenario di queste antiche creature piene di vita e di speranza.
Buona fortuna grandi viaggiatrici !
Da Mahajanga Agostino Montalti di Tartaclub
Questa mattina, appena uscito dalla camera che guarda sul mare, mi sento chiamare dal figlio del proprietario dell'albergo che ormai per lui sono "l'uomo tartaruga". Era agitato e continuava a dire Tortue, Tortue!!! Era sulla duna che divide l'albergo dal mare e indicava verso un bacino di acqua stagna e putrida che si è formato fra l'albergo e la duna di sabbia prima del mare, causa uno scolo che lo riempie quando piove. Sorpresa, c'erano tante piccolissime tartarughine marine che nuotavano in questo stagno e lui le rincorreva.Ovviamente come prima cosa, di corsa per prendere la macchina fotografica e poi anch'io a correre dietro alle piccole. Dopo il recupero di un pò di esemplari, abbiamo iniziato a guardarci attorno e cercare il nido per capire da dove provenivano, e in affetti i segni sulla spiaggia non lasciavano dubbi, il nido era lì vicino e la curiosità è troppo forte e inizio a scavare nel nido, credendo che ormai fossero tutte uscite, ma invece con grande sorpresa vi erano ancora alcuni esemplari che con fatica cercavano di uscire dal profondo nido. Piano piano le ho aiutate ad uscire, fino a trovare la zona con i tanti gusci di uovo rotti, oltre ad uno ancora intatto che ho lasciato lì e ricoperto con la sabbia. Incredibilmente il nido era d'avanti all'albergo in pieno centro città. Solo che c'era un'anomalia, le piccole una volta uscite dal nido hanno preso la via opposta, puntando il bacino di acqua dolce e qui si sono bloccate essendo una specie di trappola per loro. Forse confuse dalle luci dei lampioni notturni si sono dirette verso terra, trovando la grande pozza. Ne abbiamo trovate almeno una trentina, di cui alcune ancora dentro il nido, più un uovo ancora non schiuso che ho riposto nel nido e ricoperto con la sabbia. Poi il proprietario dell'albergo le ha inserite provvisoriamente nel grande acquario marino, nel boreau, che aveva da pochi giorni allestito, ma poco dopo preso dall'ansia di vedere queste piccole creature dimenarsi continuamente e non sapendo come alimentarle, la sera al ritorno me le sono ritrovate in un contenitore con solo un centimetro di acqua. La mattina successiva, appena arrivato nella terrazza che guarda sul mare, per la colazione, mi vedo gironzolare in mezzo ai tavoli un'altra tartarughina che prontamente prelevo e porto nel contenitore con le altre e mi viene detto che la mia idea del giorno precedente di mettere una piccola taglia su ogni esemplare ritrovato, ha funzionato al punto che ci hanno portato altri 17 esemplari e così in totale il recupero è di 53 bellissime Caretta caretta.
Riesco a convincere il proprietario ad effettuare il rilascio non come voleva fare lui in mare aperto e di giorno, ma in spiaggia e di sera dopo il tramonto. L'operazione, a rispetto dei ritmi malgasci, è iniziata con qualche ora di ritardo e con un piccolo seguito di turisti incuriositi dell'evento.
La mancanza della luna, quindi con luce molto scarsa, fa pensare al figlio del proprietario di portare il suo grosso fuoristrada sulla spiaggia, con i fari puntati sul mare, allo scopo di illuminare il presunto percorso, ma l'effetto è che le piccole, appena appoggiate sulla spiaggia, si sono immediatamente rivolte verso i fari della vettura, in direzione contraria al mare, quindi abbiamo spento i fari e utilizzato le torce elettriche che indicavano la giusta strada verso il mare. Esperienza indimenticabile vedere le piccole tartarughe sparire fra la schiuma delle onde, animate da una vitalità davvero incredibile,
Con la speranza che qualcuna di queste bellissime creature fra 20-25 anni ce la faccia a ritornare su questa spiaggia a continuare il ciclo della vita e magari dare la possibilità a qualche altro eco-turista di vivere la bella esperienza vissuta da noi pochi fortunati che siamo capitati in mezzo al percorso millenario di queste antiche creature piene di vita e di speranza.
Buona fortuna grandi viaggiatrici !
Il gelato piace vintage e light
Viaggio nei "gusti" del 2011
Il gelato è il grande amico dell'estate. Piace a tutti, aiuta a combattere il caldo delle giornate afose, è un modo pratico e veloce per sostituire un pasto e ci regala la gioia di tornare bambini.
Il gelato è il grande amico dell'estate. Piace a tutti, aiuta a combattere il caldo delle giornate afose, è un modo pratico e veloce per sostituire un pasto e ci regala la gioia di tornare bambini. La stagione 2011 vede il grande ritorno dei classici "vintage", dallo storico " mottarello" al croccantino. Tanti consensi anche per le versioni del cono light, buone e amiche della linea.
Come spiega Igi (Istituto del gelato italiano), i consumatori non si dimenticano della salute: ecco perché si dà sempre maggiore importanza al fatto che il gelato sia preparato con ingredienti naturali. L'istituto è quindi pronto a soddisfare tante esigenze diverse, per esempio quelle di chi si preoccupa per la linea, proponendo sorbetti a elevato contenuto di frutta, oppure le creme alla vaniglia o al cacao, prodotte secondo le ricette tradizionali ma con minore contenuto di grassi e zuccheri. Ci sono poi i gelati senza glutine, senza lattosio, senza zucchero e senza proteine animali e/o colesterolo, oppure prodotti con latte di soia o di riso o arricchiti con fibre, vitamine e minerali, pensati per chi soffre di particolari intolleranze.
Per la gioia dei bambini sono poi in arrivo linee di gelati dedicate ai personaggi dei cartoni animati: per le bambine arrivano Hello Kitty e Barbie, mentre per i maschietti i personaggi di Max Adventures. Il mercato italiano è comunque caratterizzato da un solido vissuto di tradizione che rende particolarmente fedeli ai sapori classici come panna, crema, caffè, nocciola, fragola, stracciatella e cioccolato. Le ricette tradizionali vengono riproposte con versioni "aggiornate" che ne migliorino il gusto, partendo da ingredienti di origine pregiata, come il pistacchio di Bronte, le nocciole del Piemonte, il cacao del Guatemala, il caffè colombiano e la vaniglia del Madagascar.
Il 2011 è iniziato bene per i produttori di gelato con un aumento dei volumi di vendita del +1,1% rispetto allo stesso periodo del 2010. Lo attestano i dati dell'Igi, secondo le stime dell'Aidepi (Associazione delle industrie della dolce e della pasta italiane). L' influenza del clima su questo settore di mercato è rilevante: è certo che nel 2010 il freddo abbia tolto la voglia di mangiare gelati, mentre la primavera particolarmente precoce di quest'anno fa invece ben sperare.
Immagini W Il Gelato - Via Gallia 168 - Roma
Il gelato è il grande amico dell'estate. Piace a tutti, aiuta a combattere il caldo delle giornate afose, è un modo pratico e veloce per sostituire un pasto e ci regala la gioia di tornare bambini.
Il gelato è il grande amico dell'estate. Piace a tutti, aiuta a combattere il caldo delle giornate afose, è un modo pratico e veloce per sostituire un pasto e ci regala la gioia di tornare bambini. La stagione 2011 vede il grande ritorno dei classici "vintage", dallo storico " mottarello" al croccantino. Tanti consensi anche per le versioni del cono light, buone e amiche della linea.
Come spiega Igi (Istituto del gelato italiano), i consumatori non si dimenticano della salute: ecco perché si dà sempre maggiore importanza al fatto che il gelato sia preparato con ingredienti naturali. L'istituto è quindi pronto a soddisfare tante esigenze diverse, per esempio quelle di chi si preoccupa per la linea, proponendo sorbetti a elevato contenuto di frutta, oppure le creme alla vaniglia o al cacao, prodotte secondo le ricette tradizionali ma con minore contenuto di grassi e zuccheri. Ci sono poi i gelati senza glutine, senza lattosio, senza zucchero e senza proteine animali e/o colesterolo, oppure prodotti con latte di soia o di riso o arricchiti con fibre, vitamine e minerali, pensati per chi soffre di particolari intolleranze.
Per la gioia dei bambini sono poi in arrivo linee di gelati dedicate ai personaggi dei cartoni animati: per le bambine arrivano Hello Kitty e Barbie, mentre per i maschietti i personaggi di Max Adventures. Il mercato italiano è comunque caratterizzato da un solido vissuto di tradizione che rende particolarmente fedeli ai sapori classici come panna, crema, caffè, nocciola, fragola, stracciatella e cioccolato. Le ricette tradizionali vengono riproposte con versioni "aggiornate" che ne migliorino il gusto, partendo da ingredienti di origine pregiata, come il pistacchio di Bronte, le nocciole del Piemonte, il cacao del Guatemala, il caffè colombiano e la vaniglia del Madagascar.
Il 2011 è iniziato bene per i produttori di gelato con un aumento dei volumi di vendita del +1,1% rispetto allo stesso periodo del 2010. Lo attestano i dati dell'Igi, secondo le stime dell'Aidepi (Associazione delle industrie della dolce e della pasta italiane). L' influenza del clima su questo settore di mercato è rilevante: è certo che nel 2010 il freddo abbia tolto la voglia di mangiare gelati, mentre la primavera particolarmente precoce di quest'anno fa invece ben sperare.
Immagini W Il Gelato - Via Gallia 168 - Roma
Il pesce fresco e selvaggio di qualità Extra direttamente da La Réunion per le tavole europee
L’azienda REUNIPECHE è specializzata nella pesca, il taglio e la distribuzione di grandi pesci pelagici pescati nelle vicinanze dell’Isola de La Réunion (nell’Oceano Indiano, a Sud-Est del Madagascar).
L’offerta di REUNIPECHE è composta all’80% da prodotti freschi, con la prevalenza di tre diverse specie di pescato: il tonno albacore, comunemente chiamato a pinne gialle, il tonno germon, alalunga con carni rosate, e infine, il pesce spada. L’azienda REUNIPECHE, già consolidata sui mercati europei, asiatici e americani;
Grazie al suo approccio rigoroso nelle tecniche di pesca, di conservazione, di stoccaggio, di taglio e di trasporto del pescato, REUNIPECHE è diventata sinonimo di prodotti di qualità, classificati nella categoria Extra e perfettamente adatti alle preparazioni crude.
Il catalogo di REUNIPECHE comprende una grande varietà di specie provenienti dalle acque dell’Isola della Réunion, come lo spada, dalla carne compatta e delicata, il tonno Albacore/Yellowfin, dalla carne sottile e sanguigna, il tonno obeso Patudo/Bigeye, che si distingue per la sua carne più grassa, il tonno Germon, le orate Coryphène, il merluzzo, l’ombrina, lo squalo, il pesce vela, ecc.
Grazie all’utilizzo del metodo di pesca con i palangari, il pesce fresco di REUNIPECHE viene pescato a sud-est del Madagascar, nelle acque de La Réunion e delle Mauritius (origine : zona FAO 51), nel pieno rispetto dell’ambiente grazie all’utilizzo di metodi selettivi ed ecologici per la cattura. La maggior parte dei pesci sono ancora vivi al momento di essere messi nell’imbarcazione, a garanzia della qualità e della freschezza del pescato.
Una volta a bordo, il pesce è macellato secondo il metodo giapponese « Tanagushi ». Un filo di nylon viene passato in tutti i centri nervosi per prevenire lo stress del pesce e la conseguente produzione di tossine. I pesci vengono poi raffreddati in vasche di acqua salmastra, contenenti acqua di mare e ghiaccio, per poi essere stivati nelle celle frigorifere.
Grazie alla sua qualità, l’offerta di REUNIPECHE riscuote grande successo da parte dei consumatori attenti alla propria salute, in sintonia peraltro con le ultime tendenze del mercato, che premia il cibo salutare come il pesce che rappresenta un’eccellente fonte di proteine e un’alternativa di prim’ordine alla carne
L’offerta di REUNIPECHE è composta all’80% da prodotti freschi, con la prevalenza di tre diverse specie di pescato: il tonno albacore, comunemente chiamato a pinne gialle, il tonno germon, alalunga con carni rosate, e infine, il pesce spada. L’azienda REUNIPECHE, già consolidata sui mercati europei, asiatici e americani;
Grazie al suo approccio rigoroso nelle tecniche di pesca, di conservazione, di stoccaggio, di taglio e di trasporto del pescato, REUNIPECHE è diventata sinonimo di prodotti di qualità, classificati nella categoria Extra e perfettamente adatti alle preparazioni crude.
Il catalogo di REUNIPECHE comprende una grande varietà di specie provenienti dalle acque dell’Isola della Réunion, come lo spada, dalla carne compatta e delicata, il tonno Albacore/Yellowfin, dalla carne sottile e sanguigna, il tonno obeso Patudo/Bigeye, che si distingue per la sua carne più grassa, il tonno Germon, le orate Coryphène, il merluzzo, l’ombrina, lo squalo, il pesce vela, ecc.
Grazie all’utilizzo del metodo di pesca con i palangari, il pesce fresco di REUNIPECHE viene pescato a sud-est del Madagascar, nelle acque de La Réunion e delle Mauritius (origine : zona FAO 51), nel pieno rispetto dell’ambiente grazie all’utilizzo di metodi selettivi ed ecologici per la cattura. La maggior parte dei pesci sono ancora vivi al momento di essere messi nell’imbarcazione, a garanzia della qualità e della freschezza del pescato.
Una volta a bordo, il pesce è macellato secondo il metodo giapponese « Tanagushi ». Un filo di nylon viene passato in tutti i centri nervosi per prevenire lo stress del pesce e la conseguente produzione di tossine. I pesci vengono poi raffreddati in vasche di acqua salmastra, contenenti acqua di mare e ghiaccio, per poi essere stivati nelle celle frigorifere.
Grazie alla sua qualità, l’offerta di REUNIPECHE riscuote grande successo da parte dei consumatori attenti alla propria salute, in sintonia peraltro con le ultime tendenze del mercato, che premia il cibo salutare come il pesce che rappresenta un’eccellente fonte di proteine e un’alternativa di prim’ordine alla carne
Disegni dei ragazzi e opere di Pistoletto
Esposti da martedì al museo di San Salvatore in Lauro: al termine, asta di beneficenza da Christie's. Il ricavato a istituti in Andhra Pradesh, Zambia, Haiti e Madagascar
ROMA - Una mostra e un'asta di beneficenza a Roma per costruire scuole in Andhra Pradesh, Zambia, Haiti e in Madagascar. Dal 17 maggio il museo di San Salvatore in Lauro ospiterà la mostra collettiva di Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, Shirin Neshat, Ackroyd & Harvey e Roy Thomas e Saptarshi Naskar, due giovani artisti indiani per la prima volta in Italia. In tutto 43 opere che il 14 giugno, giorno di chiusura dell'esposizione, saranno battute all'asta da Christie’s• SCAMBIO CULTURALE ED EDUCATIVO - Il progetto di promozione culturale e di solidarietà «Fabula» ha un duplice scopo: il sostegno dell’educazione nei paesi in via di sviluppo e lo scambio artistico e culturale tra l’Italia e giovani artisti emergenti di Africa, India e America Latina.
In mostra, infatti, i lavori di due artisti indiani che ci offrono una riflessione sull’India di oggi: Roy Thomas, che ci propone il suo immaginario fantastico e surreale dove si celano importanti richiami all’attuale situazione storica e sociale indiana, e Saptarshi Naskar, che rivolge una particolare attenzione alla vita quotidiana del suo Paese, fatta dalla semplicità di uomini comuni.
ARTISTI IN ERBA - La mostra di San Salvatore in Lauro raccoglie anche i dipinti di studenti delle scuole elementari italiani, africani e indiani che sono stati invitati a realizzare disegni ispirati a fiabe tradizionali che diventano strumento di identificazione sociale, di trasmissione di valori e di istruzione. Coinvolte anche le scuole elementari di Roma e provincia, di Milano, della Sicilia, del Molise e alcune scuole in Zambia e in Andhra Pradesh. Il risultato di questo progetto - quasi duemila colorati disegni - è esposti insieme alle opere di grandi artisti che donano i propri lavori per l’asta benefica.
PISTOLETTO IN MADAGASCAR - Il ricavato dall'asta di beneficenza del 14 giugno andrà alla costruzione di scuole in Andhra Pradesh, Zambia, Haiti e in Madagascar. In particolare nel Vim (Villaggio impresa Madagascar) situato a Mahajanga, i fondi saranno rivolti alla realizzazione di una scuola d’arte in sinergia con la Città dell’Arte di Biella, fondata da Michelangelo Pistoletto. Lo stesso maestro produrrà il giardino del «Terzo Paradiso» con la forma del simbolo dell’infinito. Verranno adoperate a tale scopo le ricchezze della flora e dell’agricoltura locali a conferma della tutela del prezioso patrimonio della biodiversità africana.
Carlotta De Leo
ROMA - Una mostra e un'asta di beneficenza a Roma per costruire scuole in Andhra Pradesh, Zambia, Haiti e in Madagascar. Dal 17 maggio il museo di San Salvatore in Lauro ospiterà la mostra collettiva di Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, Shirin Neshat, Ackroyd & Harvey e Roy Thomas e Saptarshi Naskar, due giovani artisti indiani per la prima volta in Italia. In tutto 43 opere che il 14 giugno, giorno di chiusura dell'esposizione, saranno battute all'asta da Christie’s• SCAMBIO CULTURALE ED EDUCATIVO - Il progetto di promozione culturale e di solidarietà «Fabula» ha un duplice scopo: il sostegno dell’educazione nei paesi in via di sviluppo e lo scambio artistico e culturale tra l’Italia e giovani artisti emergenti di Africa, India e America Latina.
In mostra, infatti, i lavori di due artisti indiani che ci offrono una riflessione sull’India di oggi: Roy Thomas, che ci propone il suo immaginario fantastico e surreale dove si celano importanti richiami all’attuale situazione storica e sociale indiana, e Saptarshi Naskar, che rivolge una particolare attenzione alla vita quotidiana del suo Paese, fatta dalla semplicità di uomini comuni.
ARTISTI IN ERBA - La mostra di San Salvatore in Lauro raccoglie anche i dipinti di studenti delle scuole elementari italiani, africani e indiani che sono stati invitati a realizzare disegni ispirati a fiabe tradizionali che diventano strumento di identificazione sociale, di trasmissione di valori e di istruzione. Coinvolte anche le scuole elementari di Roma e provincia, di Milano, della Sicilia, del Molise e alcune scuole in Zambia e in Andhra Pradesh. Il risultato di questo progetto - quasi duemila colorati disegni - è esposti insieme alle opere di grandi artisti che donano i propri lavori per l’asta benefica.
PISTOLETTO IN MADAGASCAR - Il ricavato dall'asta di beneficenza del 14 giugno andrà alla costruzione di scuole in Andhra Pradesh, Zambia, Haiti e in Madagascar. In particolare nel Vim (Villaggio impresa Madagascar) situato a Mahajanga, i fondi saranno rivolti alla realizzazione di una scuola d’arte in sinergia con la Città dell’Arte di Biella, fondata da Michelangelo Pistoletto. Lo stesso maestro produrrà il giardino del «Terzo Paradiso» con la forma del simbolo dell’infinito. Verranno adoperate a tale scopo le ricchezze della flora e dell’agricoltura locali a conferma della tutela del prezioso patrimonio della biodiversità africana.
Carlotta De Leo
Quando il cuore si ferma
L'ho sentito arrivare che stavo a casa mia, pronto a recarmi a un incontro, dove mi attendevano molte persone. A discutere di cambiamenti sociali, culturali, religiosi. Mi ha fermato un dolore muto. Più che un dolore, un senso di oppressione al di sotto della bocca dello stomaco. Tanto che ho pensato a un'indigestione - la sera prima, sul tardi, avevo mangiato la pizza con un amico. Non dovrei, perché la digerisco a fatica, ma mi piace. E a volte - poche - transigo. Sono rimasto lì ad ascoltare questo dolore muto, che non accennava a diluire, a perdere intensità, nonostante l'attesa. Nonostante qualche palliativo. Non l'avevo mai provato. Non richiamava il pericolo che tutti, alla mia età, temono. L'Incombente, che ti aspetta all'angolo della strada, in qualsiasi momento della tua vita. Ti aggredisce. All'improvviso. Non avevo dolori al torace, alle spalle. Solo questa pressione allo stomaco, che si allargava e si acuiva. Ma io sapevo, ne ero certo, che era lui. Stava arrivando. E non l'ho atteso.
Ho avvertito mia moglie: "Portami all'Ospedale subito. Sta arrivando". E lei, con il (suo) cuore in bocca, mi ha caricato in auto ed è partita. Mentre il senso di oppressione diventava più pesante e mi faceva male. Ha viaggiato di corsa, sempre più di corsa, azzardando sorpassi e manovre che mai aveva rischiato, nella sua vita. In un quarto d'ora siamo arrivati al Pronto Soccorso dell'Ospedale San Bortolo, dove il mio amico Vincenzo mi ha accompagnato dritto in sala operatoria. Pronta. Perché ne era appena uscito un'altra persona, un 40enne, colpito da infarto. Mi hanno operato subito, dopo che i test dedicati avevano confermato che avevo ragione.
L'Infarto: era arrivato. Appena arrivato. E io ero arrivato. Appena in tempo. Mentre la sonda risaliva l'arteria femorale destra, sul monitor ho visto, intuito il mio cuore trafitto. La coronaria sinistra chiusa. Riaperta. Ho visto il mio ventricolo sinistro, contrarsi. Ho sentito dolore. Un dolore non più muto, ma forte, violento. Come mai avevo provato. Un dolore senza un luogo, un punto specifico e definito. L'ho sentito defluire, insieme al sangue che attraversava di nuovo il mio cuore. Tutto finito, mi hanno detto. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto, mentre mi portavano all'Unità di Terapia Intensiva Coronarica. Dove sono rimasto sette giorni. Un altro intervento per liberare e cautelare la coronaria. Tre stent. Quasi un simbolo di status, mi hanno scritto molti amici. Il marchio di un club. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto. E continuano a dirmi, via via che le mie condizioni migliorano. Tutto passato. Ma il presente è diverso. Sette giorni con me stesso. Accanto a me solo i medici, gli infermieri, le infermiere. Mia moglie. Sette giorni a guardarmi dentro. Ad ascoltarmi. A entrare dentro il mio cuore. Che, per definizione, è un muscolo involontario. Funziona a prescindere dalla nostra volontà. Per vivere dovremmo vivere come se. Non ci fosse. Ma c'è. Lo so. Per giorni, attaccato a un contropulsatore, gli occhi fissi sul monitor che esplorava il mio cuore senza sosta, l'ho guardato. Cioè: mi sono guardato e ascoltato dentro.
Protetto dal mondo, che non doveva interferire con il rapporto fra me e il mio cuore. Fra me e me. Gli echi di quel che succede fuori mi sono arrivati, attraverso i giornali, una radiolina. Sgradevoli. Più sgradevoli di sempre. La nostra indifferenza nei confronti degli altri che abitano davanti a noi. Mi è parsa oscena. La pagheremo. E poi il rumore di fondo, con quell'immagine sempre in movimento, la stessa, lo stesso, che si agita, strepita, sempre lui, sempre fermo, nello stesso punto. E il rumore mediatico che lo amplifica. Insopportabile.
L'Infarto mi ha cambiato. Mi ha fatto sentire solo e, al tempo stesso, meno solo. Perché in un mondo di relazioni disattente e multiple tutto sembra uguale, in-differente. Durante e dopo l'infarto ti guardi dentro e intorno. E senti. L'importanza dei tuoi. La moglie, i figli. Mio padre, le mie sorelle. I legami stretti. Ma anche la rete delle persone che contano. E non sono poche.
L'infarto è un'occasione, se hai la fortuna di incontrarlo senza danni irreparabili. È un'occasione che ti è data. D'altronde, non può essere per caso. Che io lo senta, quando ancora non è arrivato. E che mi raggiunga a casa, e non in viaggio oppure lontano, come mi capita spesso e sempre più spesso. Che, di sabato, io trovi una sala operatoria preparata e una dottoressa, esperta pronta a operarmi. Come fossero lì, ad attendermi. Che tutto avvenga in una Unità terapeutica di eccellenza. Non può essere un caso. Per caso.
L'infarto è un'occasione, se lo accogli senza fingere. Che nulla sia cambiato. Che tutto continuerà come prima. Se non ti fai prendere dal panico e dalla paura. Dalla paura della paura.
L'infarto è l'occasione per ri-cominciare. Se ne sei capace. Per guardarti dentro e intorno. Perché domani, certo, è un altro giorno. Ma anch'io, oggi, sono un altro. Diverso da prima. E non sarò più lo stesso.
È il motivo per cui ho scritto queste cose. Non me le sono tenute dentro, per pudore e con paura. Ho raccontato i fatti miei. Ho esibito me stesso. (Sfidando il fastidio di molti a cui, sicuramente, dei fatti miei non interessa molto). Ma l'ho fatto - anzitutto e soprattutto - per me. Per non dimenticare.
Per impedirmi di ritornare. Indietro.
TESSILE: PARMA, +14% PRESENZE A "INVITA 2011"
(AGI) - Si e' concluso il Forum Internazionale della Creativita' Tessile che ha occupato per la seconda volta gli spazi espositivi di Fiere di Parma. L'atteso appuntamento biennale che presenta una platea di visitatori altamente qualificata registra una sempre piu' significativa partecipazione internazionale ed ha confermato l'importanza crescente della manifestazione.
Negli spazi di Fiere Parma hanno trovato posto anche progetti di solidarieta' a beneficio delle popolazioni rurali del Madagascar: Madasilk di "Les Soies des Marie", espositore francese, dal 2004 coinvolge gli artigiani dei piccoli villaggi delle Hautes Terres nella produzione e tintura, con metodi naturali, di diversi tipi di seta ottenute da bachi allevati, della "seta selvatica" ottenuta da una specie di baco esistente solo in Madagascar e, infine, nel recente progetto sulla lavorazione della "seta di ragno". Si tratta di un filato molto raro dal colore naturale della seta dorata adatto a lavori a tombolo o ricami finissimi, ottenuto proprio da una specie di ragni tipica del Madagascar. Spazio anche a Nui, il ricamo tradizionale giapponese che ha portato tre espositrici italiane provenienti da Fiesole, Milano e Roma ad appassionarsi a questa specifica tecnica e ad impegnarsi in un lungo percorso di formazione guidate da Mirelle Amar, docente francese di Cannes accreditata presso il Japanese Embroidery Center di Atlanta
Negli spazi di Fiere Parma hanno trovato posto anche progetti di solidarieta' a beneficio delle popolazioni rurali del Madagascar: Madasilk di "Les Soies des Marie", espositore francese, dal 2004 coinvolge gli artigiani dei piccoli villaggi delle Hautes Terres nella produzione e tintura, con metodi naturali, di diversi tipi di seta ottenute da bachi allevati, della "seta selvatica" ottenuta da una specie di baco esistente solo in Madagascar e, infine, nel recente progetto sulla lavorazione della "seta di ragno". Si tratta di un filato molto raro dal colore naturale della seta dorata adatto a lavori a tombolo o ricami finissimi, ottenuto proprio da una specie di ragni tipica del Madagascar. Spazio anche a Nui, il ricamo tradizionale giapponese che ha portato tre espositrici italiane provenienti da Fiesole, Milano e Roma ad appassionarsi a questa specifica tecnica e ad impegnarsi in un lungo percorso di formazione guidate da Mirelle Amar, docente francese di Cannes accreditata presso il Japanese Embroidery Center di Atlanta
IL FARITANY DI TULEAR
LA COSTA DEI PESCATORI VEZO
(da Speciale Madagascar i Quaderni di Berenice)
Quando, nell’estate del 1986, ricevetti una telefonata, con la quale mi veniva richiesta la disponibilità per assumere la responsabilità scientifica di un progetto per l’aiuto alla pesca artigianale nel Faritany di Tuléar in Madagascar, chiesi un giorno di tempo per rispondere.
Immediatamente dopo, esaminai con cura cartine e documenti della mia biblioteca, tentando di capire di quale angolo di quella enorme isola si trattasse: era il grande sud, che sulla mappa appariva quasi sprovvisto di vie di comunicazione. Un’ulteriore telefonata: un mese per sistemare i lavori in corso in Italia, presso il mio istituto di ricerca a Messine poi via, di nuovo in Africa dove ero cresciuto.
In effetti con una buona dose di incoscienza, avevo accettato uno dei lavori più affascinanti che io abbia fatto sinora. Si tratta di fornire alla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri uno strumento-quadro per programmare eventuali aiuti al settore della pesca artigianale in una delle zone teoricamente più depresse del Paese ma, anche, quella con le maggiori prospettive di sviluppo.
Certamente, le mie precedenti esperienze africane e l’assoluta predisposizione a coinvolgermi in culture diverse, con il massimo rispetto per le stesse, mi hanno fatto programmare ed eseguire questo lavoro in maniera tale da ottenere risultati interessanti.
Quando sono arrivato per la prima volta ad Antananarivo, sull’altopiano malgascio, era un caldo pomeriggio d’agosto del 1986 e la prima che mi colpì fu l’atmosfera che mi circondava e gli atteggiamenti della gente.
L’atmosfera del Madagascar è “magica”: è fatta di sensazioni forti, di odori, di colori e di suoni, ma è l’insieme che la rende diversa dalle tante situazioni similari che si hanno in vari punti del continente africano.
È l’isola continente, nel suo essere tale, pur nel suo gigantismo, a svolgere un ruolo chiave, racchiudendo quest’atmosfera tra i mari che la circondano. Le specie animali e vegetali che la abitano ed i forti contrasti del suo paesaggio non fanno altro che accrescere le sensazioni.
La gente, poi, è incredibile: i malgasci, strana mescolanza di almeno 18 etnie locali e di un numero imprecisato di apporti genetici stranieri, ha una vitalità ed una gentilezza difficilmente riscontrabili in altri popoli. Gli sguardi intensi e vivaci, hanno nei bambini una espressione di felicità e curiosità incredibili.
Eppure, la maggior parte dei malgasci ha una vita non facile e l’economia del paese è una delle più povere e disastrate del mondo, nonostante il Madagascar non sia assolutamente povero di risorse naturali.
Qui, infatti, la natura è stata creativa e generosa: c’erano foreste immense e ricche di specie vegetali ed animali, mancano completamente gli animali feroci , ci sono essenze arboree preziose (quali il teak, il palissandro, l’ebano e il legno di ferro) la frutta ha una varietà cospicua ed è saporitissima, verdure e cereali richiedono tanto lavoro, ma crescono bene, gli zebù sono presenti ovunque e hanno carni gustose, il terreno è ricco di minerali e di giacimenti di pietre preziose e semi-preziose, il Canale di Monzambico nasconde giacimenti di petrolio, le acque che circondalo l’isola sono ricche di pesci e di crostacei , solcate da capidogli, balene e delfini.
Molte tra le specie animali e vegetali che vivono nell’isola-continente sono endemiche ed esclusive ed alcune hanno forme bizzarre: l’Ave-Aye, il lemure notturno dal grande dito, ne è il simbolo più rappresentativo. Tra le 12 specie di baobab conosciute, ben 10 sono tipiche del Madagascar, mentre lemuri e camaleonti hanno qui la loro terra ideale.
Eppure, il Madagascar aveva ed ha una economia disastrata, che lo pone tra gli ultimi paesi al mondo in termini di reddito. I pirati prima, le grandi potenze poi, i regimi corrotti e collegati ad interessi stranieri più recentemente, hanno fatto sì che questa isola ricchissima accumulasse un’enormità di problemi, dove quelli ambientali non sono tra gli ultimi.
Ben l’80% della foresta primaria originale è ormai scomparsa, scoprendo il suolo e rendendolo improduttivo dopo qualche anno,: le risaie producono un riso di buona qualità ma costituiscono un luogo ideale per le zanzare ed il Madagascar ha tutti i ceppi di plasmodio conosciuti, anche i più letali; i parassiti sono diffusissimi, così come molte malattie tropicali, portando l’aspettativa di vita, allora sotto i 27 anni.
Ecco, tutto questo insieme mi avvolge completamente, quel lontano giorno del 1986.
Guidavo una missione composta da un ingegnere(Giorgio) e da un logistico (Giuliano), quest’ultimo molto esperto di paesi difficili. Avevamo scelto di non abitare in albergo, ma di affittare un piano di una palazzina nel centro di Antananarivo, di proprietà di un inglese un po’ matto (Mike Swatton), a pochi passi dal palazzo presidenziale, per sentirci a casa e per compenetrarci meglio nella realtà locale. Arrivammo lì che era già tardo pomeriggio e l’accoglimento del personale di servizio (tantissimi !) ci fece dimenticare il lungo viaggio.
Pian piano iniziammo a predisporre la missione: grazie a Mike, superammo infiniti ostacoli ministeriali, fatti spesso di burocrazia apparentemente complessa.
Ci richiesero una quantità inimmaginabile di foto-tessera: ne servivano otto per ogni permesso o qualunque documento e penso che ce ne siamo ancora mucchi delle mie in chissà quanti uffici pubblici malgasci.
L’Ambasciatore italiano ci accolse familiarmente, così come le funzionarie dell’Ambasciata, gentili e carine: eravamo un gruppo un po’ atipico e squinternato tanto che una di loro ci prestava spesso la sua jeep con targa diplomatica, per i nostri giri serali cittadini.
Nell’affitto della casa era prevista anche una vecchia jeep Toyota Land Cruise passo lungo, serie anni 50, di colore arancio scuro, con il tetto bianco: tutti la conoscevano a Tanà e diventò la nostra compagna fedele di tanti giorni e notti in città.
Con molta pazienza, dopo aver ottenuto montagne di permessi e l’appoggio della Direzione Generale delle Acque e delle Foreste, organizzammo la spedizione sul terreno che doveva esplorare in dettaglio l’intera costa del FARITANY DI TULEAR.
Una mattina alle primissime luci dell’alba, iniziammo la nostra lunga avventura: avevamo una jeep Toyota Land Cruise passo lungo, nuova, e con aria condizionata, seguita da un camioncino 4x4 Kia, entrambe cariche di carburante, tende, attrezzature e viveri in quantità sufficiente per oltre 45 giorni. L’equipaggio era formato, oltre a Giuliano, Giorgio e me, da un personaggio incredibile , il cuoco (Papa), un vecchio malgascio sopravvissuto a se stesso, altissimo, magro ieratico e dalla risata contagiosa , un autista portoghese, certamente figlio di parenti di pirati ed un secondo autista malgascio.
Decidemmo di iniziare dalla parte più a nord del Faritany, ponendo una prima tappa a Morondava, sul canale di Monzambico, alla foce del fiume omonimo. Costeggiando il massiccio dell’Ankaratra (2642 m), iniziammo a percorrere l’altopiano in direzione sud, passando per Ambatolampy, cittadina famosa per le cascate e, soprattutto, per i gamberi di fiume e le rane, dirigendoci poi per Antsirabe, la vecchia residenza del re. Da qui, seguimmo la strada verso est, iniziando la lunga discesa verso la costa.
L’altipiano malgascio è un susseguirsi di boschetti e di risaie, di alti alberi e vestigia di una foresta che c’era, con rilievi ricoperti di terra rossa, spesso solcata ferocemente dall’acqua che da un aspetto rugoso al terreno. La abitazioni sono particolari, spesso a più piani, fatte di mattoni crudi e rivestiti di terra rossa, con piccole finestre e tetti di paglia. Qualcuno ha sostituito la paglia con la lamiera ondulata: ne fanno un punto d’orgoglio, ma la casa non respira più. La gente ha abiti colorati, spesso con copricapo piccoli, che qualche volta ricordano quelli andini. La musica non è rara: si sentono flauti e strumenti a corda, ma anche piccoli tamburi. Sono nenie struggenti e dolci, che si sposano benissimo con l’ambiente e che danno la misura del modo di vivere di questa gente.
Ad un certo punto, passiamo accanto ad una sorta di processione, fatta di gente che balla e che suona, vestita con colori allegri, ma alcuni trasportano un corpo avvolto in teli: si tratta di una cerimonia animistica tipica del Madagascar, che consiste nel disseppellire il congiunto defunto, cambiare i teli che lo avvolgono e portarlo in giro per il villaggio, per tenerlo al corrente delle novità, una cerimonia che si conclude solitamente con il sacrificio di uno zebù, mangiato da tutto il villaggio.
Proseguiamo sulla strada, sorpassando camion Mercedes che un tempo erano di colore verde scuro, carichi oltre ogni possibile immaginazione, nascosti da cortine fumogene che vengono dagli scappamenti esausti.
Nella discesa verso la costa, passiamo sul lungo fiume Mania, laddove questo si congiunge con il Tsiribihina, dando luogo ad un corso ampio e ricco d’acqua con larghe pozze ove si concentrano uccelli acquatici ed anfibi. Prima di arrivare a Morondava, attraversiamo vaste distese di alberi isolati e di palme, suggestivi nella luce del tramonto.
Morondava è un porto importante per la comunità Vezo, i pescatori nomadi del sud del Madagascar: qui c’è un cantiere navale, ove si costruiscono barche a vela, con uno o due alberi, per il trasporto delle merci sul piccolo cabotaggio e, in prossimità del cantiere, c’è anche una grande cella frigorifera, gestita allora da una piccola società franco-malgascia, dove viene accumulato e smistato il pesce portato dalle piroghe.
Lungo la riva destra della foce del fiume Morondava c’è il villaggio dei pescatori Vezo, con le loro capanne, le loro attività e i loro mastri d’ascia.
Qui vengono costruite le famose piroghe: ci sono quelle Monoxile, scavate in un unico tronco, lunghe, strette e filanti, atte a contenere da uno a due pescatori, con loro corpi leggeri ed atletici. Vengono utilizzate per la pesca costiera, sia con reti da posta che con lenze a mano, ma anche lungo i corsi d’acqua più calmi e nelle lagune. Manovrarle richiede doti di equilibrio notevoli e devono sperare di non avere mai problemi. All’epoca una piroga del genere, ben fatta e con un remo, costava l’incredibile cifra di circa 5 dollari. Ma le piroghe più belle sono quelle tradizionali a bilanciere, ove si concentrano secoli di sapere marinaresco. Su uno scafo monoxile di base, vengono poi aggiunte delle tavole da murata, alle quali si aggancia, con un complesso sistema di legature ed incastri, il pesantissimo bilanciere, fatto in legno massiccio e duro. Al centro della piroga si colloca una strana tavola a cinque fori, nei quali vengono posti i due pali che sorreggono la vela. Le manovre si attuano cambiando la posizione dei due “alberi” tra i fori. La vela è spesso una semplice “lamba”, il telo di cotone multiuso tipico dell’abbigliamento malgascio: serve da pareo per le donne, per trattenere al corpo i bimbi più piccoli, per trasportare merci ed oggetti, come coperta leggera, e, anche, come vela.
Queste piroghe sono caratteristiche dei pescatori Vezo: si vedono filare veloci lungo la costa o al largo, con le piccole vele. Quelle di dimensioni minori sono utilizzate per la pesca, altre più grandi per il trasporto del pesce dai villaggi alle zone di concentrazione del pescato, quelle molto grandi servono da trasporto merci o per le occasioni in cui l’intero villaggio decide di spostarsi, inseguendo i pesci lungo le loro rotte.
L’attività del villaggio Vezo di Morondava è quella tipica, con le piroghe che prendono il largo alle prime luci del giorno ed i pescatori che rientrano nel pomeriggio con il loro carico di pesce, che viene poi trasportato dalle donne. I grossi pesci vengono portati in equilibrio sulla testa, talvolta con un seguito di bimbi festanti.
All’epoca Morondava aveva due alberghi, uno fatto di bungalow tra le palme, gestito da un francese (dove noi alloggiammo, per via dell’ottimo cibo, e l’altro, il Grand Hotel (!!!!), gestito dall’inglese, che ci ospitava a Tanà. Questo albergo era tipicamente coloniale, in legno e con arredi tipici malgasci, ma il suo confort era più che discutibile, così come le frequentazioni: l’ampia hall era affollata di giovanissime donne, talvolta avvolte nei loro coloratissimi lambauani dentro strettissime T-shirt di cotone, souvenir di precedenti “amici” europei. L’atmosfera era allegra, seppure ricoperta da un manto di umida decadenza, nella penombra costante, rotta dal lento roteare delle pale del ventilatore a soffitto.
Questo primo contatto con la comunità Vezo ci introdusse immediatamente nel loro mondo, fatto di conoscenza di mare e delle specie, di credenze e paure, di lunghe giornate solitarie in mare e da notti intorno al fuoco. Importanti e preziose per il nostro lavoro furono le chiacchierate, tramite il nostro interprete, con il presidente dei pescatori del villaggio e con i mastri d’ascia, persone che conoscevano in dettaglio la vita anche delle comunità vicine.
Questo metodo d’indagine si rivelò essere il migliore: per tutta la durata del viaggio continuammo a chiedere informazioni ai pescatori, soprattutto in merito ai villaggi vicini, in modo tale da sovrapporre le informazioni ed i dati e confrontarli con i rilievi diretti.
Da Morondava decidemmo di spostarci subito verso nord. Dapprima in jeep, verso Belo Tsiribihina, una cittadina piccola e tranquilla, posta alla foce del fiume omonimo. In effetti, però, la foce nell’ultimo tratto diviene un ampio delta, ricco di piante e uccelli acquatici, tra i quali aironi e garzette la fanno da padroni, ma anche gli ibis sono abbastanza frequenti. Il villaggio è pulitissimo, con gruppi di maiali in libertà che provvedono ai bisogni di nettezza urbana, eliminando qualsiasi tipo di rifiuto. Allora c’era un piccolo albergo dimesso, con un bar e un ristorante non più in funzione, delizioso nel suo stile coloniale in legno e muratura, con elementi di preziosità artistica piuttosto rari da quelle parti ed un vasto cortile interno. La gente è ospitale e tranquilla, la frutta abbondante e profumata, le papaye raccontano poesie di gusto, i granchi abbondano, ma abbondano anche le zanzare che, sul far del crepuscolo, assumono comportamenti tipici delle squadre d’assalto. Gli effetti, purtroppo, si vedono, data l’ampia diffusione della malaria.
La strada che collega Belo a Morondava ha una foresta secondaria a fusto alto, piuttosto “secca”, ma gli alberi brulicano di vita, mentre i lemuri Tsifaka riposano tranquilli tra i rami o saltano come molle da un albero all’altro, leggeri quasi fossero fatti di piume ed elegantissimi nella loro livrea candida e con il volto circondato da peli colorati.
Tornati a Morondava, decidemmo di risalire la costa in una zona dove non esistevano piste praticabili e, quindi, la piroga era l’unico mezzo possibile.
Con una lunga navigazione, arrivammo in prossimità della foce del Manambolo, dove un improvviso fortunale ci costrinse a fermarci in un piccolo villaggio stagionale di nomadi Vezo, posto lungo una spiaggia surreale. Qui la bassa marea schiudeva alla vista uno spettacolo che non avrei mai più rivisto:un fondale di sabbie e lamelle di mica , che riflettevano la luce del sole come uno specchio, in modo abbagliante. La gente del villaggio, poverissimo, ci accolse con estrema gentilezza e curiosità, mentre i bimbi ci saltellavano intorno, curiosi e spaventati. Restammo al villaggio due giorni, dormendo nella migliore capanna, coprendoci con vele indurite dalla salsedine e condividendo con i pescatori e le loro famiglie, un caffé fatto con acqua salmastra, dove le zanzare affogavano lente, ma che al mattino, ci sembrava quello buono del bar sotto casa (cosa è capace di fare la nostra mente!). I pescatori del villaggio affidavano il pescato di gamberetti alle mogli, che provvedevano a spanderlo sulle sabbie caldissime della parte alta della spiaggia. Qui, in questo che io chiamai “ il campo dei gamberi, i piccoli crostacei si essiccavano in fretta e, dopo qualche giorno, venivano recuperati setacciando al vento la sabbia finissima. Altrove, vicino alle piroghe, c’era una sorta di grande stenditoio, con appesi pesci ad essiccare, tenuti aperti da piccoli pezzi di ramoscelli.
In effetti questo era il modo migliore per rendere trasportabile il pesce e i crostacei, dato che, una volta essiccati, potevano essere portati ovunque nel paese, senza bisogno di ulteriori accorgimenti di conservazione. L’economia del troc, in questa piccola comunità, era basata sullo scambio di questi prodotti, dai quali ricavavano anatre, attrezzi da pesca e vestiario.
Quando il vento e il mare ritornarono calmi, riprendemmo la via del sud per tornare a Morondava e ricordo ancora l’emozione di vedere tutti gli abitanti del villaggio, uomini e donne, circondati da tanti bambini festanti, schierati lungo la spiaggia, spesso con l’acqua sino alla vita, che ci salutavano quasi come si saluta un parente: “celoma”, carissimi amici del mare, spero che la vostra vita scorra dolce come l’acqua del mare tra la sabbia.
A Morondava, intanto, il nostro equipaggio aveva completato le provvigioni, rimpinguate anche con anatre e galline vive. Insieme a Giuliano prendemmo la decisione di non seguire necessariamente la pista principale ma di tentare di seguire il profilo della costa, in modo tale da poter raggiungere tutti i villaggi di pescatori. Gli autisti non erano per nulla contenti, poiché immaginavano le difficoltà e gli ostacoli di un percorso spesso inesistente: il segnale più brutto fu quando tornarono alle auto con la faccia cupa, dopo aver comprato una quantità spropositata di pezze per le camere d’aria, dicendoci che sicuramente non sarebbero state sufficienti!
L’unico sereno e allegro era Papa, il cuoco, felice di poter vedere una parte del suo Paese che lo incuriosiva: era una sorta di monumento vivente e così sarebbe quasi diventato una leggenda! Il suo volto ieratico era illuminato da uno sguardo acuto e gioioso, pieno di curiosità: era lui che incitava tutti gli altri, lui che ci avrebbe accudito e coccolato con i suoi manicaretti improvvisati nei posti più impensabili.
Da questo momento in poi, sino a Tulear, tutto sarebbe stato all’insegna dell’improvvisazione organizzata! La pista che si diparte da Morondava è affascinante in molti tratti, tra i giganteschi baobab (ADANSONIA GRANDIDIERI) che si slanciano verso il cielo. I saggi chiamano il baobab “il grande padre della foresta” e narrano che un giorno, tanti secoli or sono, fosse un albero splendido ed enorme, con una grande chioma rigogliosa. La sua bellezza gli faceva dichiarare sfrontatamente di esser l’albero più bello e questo fece irritare Dio che, in preda all’ira, lo estirpò piantandolo sottosopra: secondo la leggenda, è proprio questa la leggenda del baobab!
Lungo il percorso, se ne trovano di enormi, con un tronco di svariati metri di diametro, mentre altri si abbracciano in modo inconsueto, dando luogo a forme strane.
Le piste sono dure, difficili, pericolose, solitamente solitarie. Talvolta, però, si incrociano pick-up Peugeot stracarichi di viaggiatori: erano un pericolo per sé e per gli altri, anche se i guidatori avevano l’abilità dei funamboli.
Ankevo è stato uno dei primi villaggi incontrati, pulito e ordinato, con le sue capanne e le sue piroghe, su una spiaggia biancastra racchiusa da basse rocce. La pista per Belo, invece scompare presto in una vasta zona di sabbie frammiste a mangrovie, impossibile da percorrere con le alte maree. Quando la bassa marea, invece fa ritirare le acque, ecco comparire migliaia di granchi violinisti, timidi e sfacciati nello stesso tempo, che rendono il terreno brulicante. Belo ha anche delle piccole saline, importanti per l’economia e la salute del Madagascar.
Proseguendo per Antoba, gli insabbiamenti sono sempre più frequenti e le forature iniziano a diventare quasi costanti. I panorami sono belli ed inconsueti, dai colori forti e con tanti spunti per fotografie. L’arrivo in ogni villaggio di pescatori è circondato da una curiosità notevole: in alcuni posti avevano visto un bianco oltre vent’anni prima, quindi il nostro passaggio fa notizia.
Prima di partire dall’Italia, mi ero posto il problema di cosa portare in omaggio nei vari villaggi, sapendo che si trattava di aree dove mancava quasi tutto. La mia filosofia di vita mi ha sempre imposto il massimo rispetto della dignità di ogni persona ed un umile approccio con le culture locali. Decisi, quindi, di portare con me una serie di regali utili: per i capi villaggio o per i presidenti delle comunità di pescatori avevo una scorta imponente di coltellini multiuso cinesi, una copia praticamente identica di quelli svizzeri, più famosi e molto più costosi; per la comunità, invece, avevo preparato delle buste di plastica, con dentro un buon assortimento di ami e diverse matasse di vario spessore di filo da lenza. Inoltre, pacchi e pacchi di matite e di penne biro, più varie confezioni di block-notes.
La scelta fatta si dimostrò vincente e valida: i capi villaggio ed i presidenti dei pescatori erano fierissimi del loro coltellino multifunzione, mentre i pescatori apparivano entusiasti per il dono degli ami e delle lenze. Quando ebbi modo di ritornare in qualche villaggio, dopo qualche anno, mi spiegarono che quel piccolo dono aveva significato un aumento notevole della capacità economica del villaggio e, in alcuni casi, la comunità ne aveva tratto vantaggi impensabili.
Infatti (ma di questo non ero assolutamente a conoscenza prima del mio lungo girovagare), i Vezo non hanno materia prima per costruirsi attrezzi da pesca ( ad eccezione di qualche nassa) e, quindi sono costretti ad acquistarli o ad inventarseli con materiale di fortuna.
Per acquistarli, normalmente si rivolgono a commercianti locali che sono spesso collegati alle poche società commerciali che raccolgono il pesce e lo veicolano all’interno del Madagascar o anche all’estero. In questo caso, le attrezzature vengono date ai pescatori a fronte di un impegno a fornire il pescato in modo esclusivo.
Per “crearli”, invece, attendono la buona sorte. Particolarmente apprezzati sono i vecchi pneumatici radiali, talvolta trovati semi-distrutti lungo la pista, qualche volta portati dalle violenti mareggiate e provenienti da chissà dove. Il pneumatico viene immediatamente aggredito e si iniziano a recuperare i fili di materiale sintetico che costituiscono la struttura del radiale. Questi, quindi, sono utilizzati per annodare una rete, normalmente di piccole dimensioni. I galleggianti sono sostituita da piccoli pezzi di legno leggero, mentre i piombi sono sostituite da conchiglie, spesso piccoli Turbo. Talvolta, per assicurare alla rete una colorazione scura, si utilizza il lattice di una pianta grassa, che viene spalmato sui fili e che,quando si asciuga, assume una colorazione bruno nerastra, I nostri pescatori, abituati a strumenti sofisticati, inorridirebbero davanti ad una rete del genere, ma loro non sono riusciti ad inventarsi niente di meglio.
Per gli ami, invece, occorre aspettare che il mare o la sorte facciano arrivare un pezzo di legno con i chiodi. In tal caso, questi vengono lavorati dal pescatori, ribattendoli sino a trasformarli in ami di varie dimensioni.
Sinceramente sono condizioni inimmaginabili per noi.
A causa della impossibilità materiale di proseguire lungo la costa, decidemmo di addentrarci all’interno, per sostare a Manja, dove arrivammo in tarda serata. Qui c’era una capanna con la scritta “Hotely”, dove ci installammo, con tutto il nostro seguito. Ma quale fu la sorpresa degli abitanti quanto Papa, vanesio come un tacchino, decise di prepararci la cena con in testa il suo cappello bianco da cuoco! In pochi minuti, gran parte degli abitanti si radunarono fuori dall’Hotely, la cui proprietaria si mostrò imbarazzatissima: non aveva compreso l’importanza dei suoi ospiti! Dopo cena, a me toccò un comodo letto (dopo tante notti sotto la tenda), nella cipollaia dell’Hotely, una sorta di capanna divisa in due, dove venivano ammonticchiate cataste di cipolle odorose. Fu una notte indimenticabile, l’ideale per un entomologo, soprattutto scuotendo gli scarponi al mattino prima di indossarli. La pioggia di grandi scarafaggi che ne venne fuori mi fece comprendere che il luogo era molto frequentato e apprezzato, anche da questo tipo di ospiti!
L’attraversamento del fiume Mangoky fu difficilissimo, dato che le rive sabbiose erano una sorta di barriere insormontabili. I nostri due mezzi si tiravano fuori dalla sabbia a vicenda, ma talvolta era necessario farlo a forza di braccia: ci vollero diverse ore, prima di arrivare alla chiatta che, uno alla volta, li traghetto dall’altra parte, mentre Giuliano, Giorgio ed io attraversammo il fiume a nuoto, per abbassare la temperatura corporea e per eliminare la sabbia che le ruote dei mezzi interrati ci avevano spruzzato ovunque.
Dopo Andronopasy, Ambohimbo, Ankarona, nel delta del Mangoky, Morombe ci accolse con una nebbia degna della Bassa Padana, con il mare in tempesta, in un ambiente quasi surreale e ovattato. Qui la barriera corallina ha subito gli assalti dei raccoglitori di conchiglie e di oloturie, le prime dirette ai mercati italiani, e le seconde a quelli asiatici. Faceva un po’ pena vederla così spoglia, tra le acque poco trasparenti per via degli apporti dei fiumi, ma era ancora un sito pieno di pesci ed i Vezo sembravano apprezzarlo moltissimo.
Si attraversavano ambienti estremamente vari, passando dai baobab agli alberi bottiglia (talvolta ricoperti da centinai di piccoli pappagalli verdi), dagli alberi del viaggiatore alla foresta spinosa di Didieracee, dai mangrovieti della costa alle distese di piante acquatiche dei grandi delta, dalle palme da cocco delle grandi spiagge ai piccoli fiori tra le rocce e le sabbie. Spettacoli naturalistici indimenticabili, racchiusi tra albe dai colori intensi e tramonti tropicali che andavano dall’arancio al rosso al viola, in un caleidoscopio affascinante. Talvolta, le piste (ma chiamarle così è un complimento!) erano scavate da una pioggia improvvisa e si trasformavano in sentieri sconnessi, altre volte occorreva fare attenzione alle grandi tartarughe radiate (una specie minacciata e protetta), che decidevano per la via più comoda che era proprio il solco della pista: passarci sopra avrebbe significato forse la loro morte e certamente il capovolgimento del nostro mezzo.
E la gente dei vari villaggi, dove talvolta vedevi dei visi intensi e solcati dalla salsedine dei pescatori, ma dove potevi incrociare lo sguardo dolcissimo e languido di una splendida fanciulla distesa all’ombra della sua capanna, in prossimità della spiaggia. Avevamo riscoperto l’enorme importanza dell’albero del villaggio, spesso un gigantesco mango, sotto il quale, all’ombra, un maestro teneva le sue lezioni ai bimbi o dove gli anziani (ma erano poco più che miei coetanei, purtroppo!) tenevano il consiglio.
Foca, Ambavadoca, Befandela, Ambohitsabo, Solary, Tsifoka, Monomio, Andavo, Ifaty, i villaggi scorrevano uno dietro l’altro, come i giorni e le notti. In ogni posto un incontro, lunghi scambi di informazioni, sorrisi e gentilezze, , ma per me si trattava di un mondo che mi si apriva dinanzi, ricco di cultura e saggezza marinara.
Poi finalmente Tulear, la cittadina attraversata dal Tropico del Capricorno, con i suoi venditori di conchiglie intorno alla piazza della strada principale, i suoi pousse-pousse, la sua vita quasi frenetica, dopo tanti giorni di piste e silenzio. Finalmente un albergo, una doccia, un letto con lenzuola. Nel giardino un Lemur Catta con cui giocare festosamente, corrompendolo con le piccole banane dolci, mentre saltava veloce ovunque, per mostrarsi vezzosamente con la coda ad anelli bianchi e neri.
Tulear in effetti, è la capitale dei Vezo, sede di una Università importante e di una storica Stazione di biologia Marina, dove con l’aiuto di esperti della FAO e di università europee, si studiano i complessi meccanismi della ricchissima barriera corallina che si trova a sud della città, una delle più affascinanti dell’Oceano Indiano, particolarmente ricca di specie per via della particolare idrografia del canale di Monzambico.
Dopo esserci ritemprati, avere acquistato qualche nuova camera d’aria per le ruote dei nostri mezzi di trasporto e dopo una serie interminabile di incontri ufficiali con le autorità locali e con i colleghi della FAO, ricominciamo il cammino lungo la strada dell’estremo sud, spesso tra le foreste spinose dotate di un fascino estremo. Una notte ad esempio abbiamo la ventura di sentire un po’ di pioggia sulle nostre tende, niente di particolare. Ma la mattina, una volta arrivata la luce dell’alba, intorno a noi si aprì un mondo incantato, dove le secche piante spinose della sera prima, si erano trasformate in verdissimi esseri pieni di foglioline sottili. Al termine della giornata soleggiata, molte specie avevano anche dei fiori, generalmente piccoli e vistosi. Leggendo sui libri è una cosa, ma vedere questo spettacolo dal vero si ha la stessa impressione di trovarsi in un luogo magico e incantato.
Anakao è un importante villaggio Vezo subito a sud di Tuléar, al di là dell’ampia foce del fiume Onilahy, nella Baia di St.Augustin. Già nel 1986 c’era una piccola attività turistica, gestita da un francese piuttosto noto nella zona, che poi morì tragicamente e romanzescamente qualche anno dopo, chiudendo in modo coerente la sua travagliata esistenza. Lui gestiva le piroghe che portavano i turisti da Tuléar ad Anakao ed un piccolo lodge con capanne per turisti sulla spiaggia, ma era ovunque famoso per la sua importante collezione di conchiglie, dovuta all’opera incessante dei suoi amici pescatori.
Le isolette a sud di Anakao hanno ancora i resti di qualche tomba dei pirati, che frequentavano queste acque soprattutto nel ‘700, ma sono altrettanto note per l’elevata qualità delle vongole, comunissime sui bassi fondali che le circondano verso terra.
Da queste parti sopravvivono le vecchie tradizioni Vezo e non è infrequente vedere una fila di piroghe, dalla quale si propaga una musica ritmata, che accompagna la sposa ed i suoi familiari al villaggio dello sposo, per il rito e la festa.
La strada statale passa all’interno, troppo per le nostre necessità e, quindi decidiamo di tentare la pista costiera, dove esiste. La pista del sud è molto difficile e raggiungere Beheloko, Anja Belitsaka ed Itampolo ci fa comprendere che il tratto che ci aspetta ci riserverà molte sorprese. Qui i villaggi sono sempre più brulli, le capanne risentono della temperatura spesso elevata, ma la gente è sempre cordiale. Intorno ai villaggi, spesso, ci sono piccoli cimiteri, pieni di steli lignei scolpiti, una caratteristica del sud. Vederli significa fare un tuffo nella vita del passato, dato che ogni stele rappresenta alcune delle scene più peculiari della vita del defunto.
La caccia delle grandi tartarughe marine (generalmente la tartaruga verde) è praticata con alcune precauzioni. Anche i Vezo comprendono che non si possono sterminare le tartarughe marine, malgrado per alcuni villaggi questa si una delle poche opportunità di mangiare carne. Per questo alcuni adottano una tecnica, che può apparire crudele a noi occidentali urbanizzati, ma che ha un profondo senso di rispetto per gli animali e gli abitanti del villaggio. Quando una tartaruga viene catturata e uccisa, la carne viene distribuita tra gli abitanti e dura per diversi giorni. Se, per caso, fosse possibile catturare una tartaruga nello stesso periodo, questa verrebbe trattenuta sulla spiaggia, viva, all’ombra di una vela, per vari giorni, costituendo una riserva di cibo importante. I bimbi, in tal caso, provvedono a bagnarla periodicamente, e le regole non scritte dei pescatori dicono che non è consentito catturare più di una tartaruga per volta, oltre quella che sta per essere consumata.
Arrivare ad Androka è un’impresa, soprattutto quando le piogge ingrossano il Linta, il più importante fiume del sud. Il guado è impraticabile ed abbiamo due alternative: fermarci per un numero indefinito di giorni, aspettando tempi migliori, o tentare di trovare un guado a monte, fuori pista. Scegliamo la seconda opzione, ma sconsiglierei a chiunque di seguire la nostra strada. Passiamo da un villaggio tipico del sud malgascio a contrafforti rocciosi densi di vegetazione. I nostri mezzi sobbalzano sulle pietre e siamo costretti a fermarci più volte, per riparare le gomme, squarciate in più punti. Ormai, siamo diventati velocissimi esperti e smontare un pneumatico, ripararlo e rimontarlo per noi non rappresenta più incognite. Infine, utilizzando torrenti secchi e sconnessi come se fossero autostrade e con l’indispensabile aiuto di un poverissimo pastore, vestito solo di un perizoma, che non aveva mai visto un’automobile e che ne era, al tempo stesso, terrorizzato e incuriosito, riuscimmo a guadare il Linta, con l’acqua allo sportello.
Ma il profondo sud del Madagascar aveva in serbo per noi una fantastica sorpresa, che ci avrebbe ricompensato di qualunque sforzo. Un giorno passando da un villaggio all’altro e parlando con i pescatori, qualcuno disse che esisteva un piccolissimo villaggio di pescatori di aragoste, che loro con superiorità, definivano “selvaggi” e “primitivi”. La cosa ci incuriosì e così iniziammo a chieder informazioni sempre più precise. Finalmente, qualcuno riuscì ad indicarci la via per raggiungere il villaggio misterioso, non segnato sulle carte.
Dopo varie ore di percorso su un tratto di costa periodicamente sommerso dal mare, dove non esisteva alcuna traccia di pneumatico di passaggio, raggiungiamo un cimitero poverissimo, con steli chiaramente molto vecchie e consumate dal tempo. Proseguiamo con estrema difficoltà e rischiamo anche che il nostro pick-up ci abbandoni, essendo precipitato in una buca piuttosto profonda.
Riusciamo con molta fatica a recuperarlo e procediamo0 verso la duna costiera. Dietro di essa, tra il mare ed un’altra fascia dunale, finalmente scorgiamo il villaggio. Ma è vuoto: gli abitanti, impauriti si sono nascosti nella vegetazione del bush, ne intravediamo qualcuno. Il villaggio è incredibile: le capanne sono fatte di sterpi ammonticchiati, mentre le aperture sono coperte con carapace di tartarughe verdi.
Le tartarughe sembrano essere le uniche fornitrici di utensili del villaggio: sono catini e bacinelle, palette e contenitori, ma anche feticci sui pali. Dopo aver fotografato tutto ed aver cercato invano di far comprendere agli abitanti che avevamo intenzioni tranquille, l’unica decisione possibile era quella di andarcene, restituendo a querlla gentil proprio mondo inviolato.
Nell’andar via, Giorgio, Giuliano ed io decidemmo di non rivelare mai il nome del villaggio e la sua collocazione geografica, al fine di proteggere la privacy di quegli abitanti particolari, che evidentemente non avevano contatti con la modernità. Ognuno di noi ha rispettato il patto e, da quel che mi risulta, il villaggio non è ancora sulle carte. Significa che nessuno ha più disturbato i suoi abitanti e spero che possano continuare a lungo nel loro isolamento, anche se temo che possa durare poco.
La costa del sud ha il suo apice rappresentativo qualche decina di chilometri prima di Betanty (Faux cap), un capo che è la parte più meridionale del Madagascar. Qui, di fronte all’Oceano, ci sono alte dune fossili, dove si trovano i resti delle uova del grandissimo uccello fossile Aepyrnis maximus. Le sabbie compatte sono ripide sul mare cristallino, dove alcuni ragazzi si bagnano. Splendida, anche la zona di Italy, un bel villaggio di pescatori in una baia dai colori incredibili, circondata da vegetazione, poco prima di arrivare a Tolanaro (Fort Dauphin). Finalmente un’altra cittadina ed un altro albergo, di proprietà del francese che gestisce la riserva del Berenty, famosa per i lemuri. Anche la ragazza dell’albergo è famosa per la sua bellezza europea, occhi color del mare e capelli biondissimi, che contrasta con le tante bellezze locali. Le strade di Fort Dauphin sono affollate, la gente commercia frutta, verdura, pesci e carne, in un “baillame” di abiti colorati. I fili elettrici tra i pali della lucerono ricoperti da migliaia di grandi ragnatele, creati da ragni dalle zampe lunghissime e dal corpo colorato. La baia in cui si trova Fort Dauphin è splendida, ma il mare è spesso mosso, agitato dai venti che percorrono la zona. Qui c’è la pesca delle aragoste, fatta con le nasse, che dà una buona varietà di specie: quelle verdi, che vivono nelle scogliere più superficiali, poco apprezzate; quelle rosse, di rocce più profonde, piuttosto gustose, e quelle nere, di zone ancora più profonde, da gran gourmet.
A nord di Tolanaro, la vegetazione è completamente diversa. Tutto è lussureggiante e verde, segno evidente della maggiore quantità di pioggia che caratterizza la zona. Ci spingiamo sulla strada costiera, superando Mamantenina. Qui è necessario attraversare un gran numero di corsi d’acqua, tra le rive colme di vegetazione. I traghetti sono delle chiatte, che si muovono lungo un cavo, talvolta a forza di braccia.
Qui, alla foce dei fiumi, vive ancora il dugongo, il grande sirenide erbivoro che sta progressivamente scomparendo dall’Oceano Indiano, cacciato ed ucciso per le sue carni saporite e per l’olio raffinatissimo che si ricava dal suo grasso. Cerchiamo di vederne uno, ma è assolutamente impossibile, anche se in diversi villaggi ci dicono di conoscerlo e di vederne qualche esemplare di tanto in tanto.
Lungo la costa del sud est del Madagascar, i villaggi sono poverissimi e l’abbondanza di piogge rende ancora più evidente la condizione di indigenza. I più poveri sono i villaggi dei carbonai, povera gente che vive vendendo o scambiando i resti delle foreste bruciate con qualcosa da mangiare o da indossare. Questi villaggi hanno capanne piccolissime ed ovunque si nota un velo di caligine. I villaggi più “benestanti” sono quelli dei pescatori di aragoste, dove, però, il tasso di alcolismo è elevato, dato che i commercianti (almeno allora!) usavano ricompensarli con il rhum, invece che con i soldi.
Al confine nord del Faritany decidiamo di rientrare a Fort Dauphin. Qui incontriamo due ragazze emiliane piuttosto mal messe, senza quattrini e disperate per una serie di disavventure e decidiamo di dar loro un passaggio sui nostri mezzi, mentre noi torniamo a Tanà con l’aereo, dopo circa un mese e mezzo di jeep.
Dopo quella ed altre due missioni, riesco a redigere un rapporto dettagliatissimo sui pestatori del Faritany di Tulèar, sui mezzi a loro disposizione, sulle loro attività e le catture e, grazie ad alcuni economisti, anche sulle loro necessità. Una copia dei dati li regalai ai colleghi della FAO che operano in Madagascar: per loro si tratta di un regalo importante, dato che, malgrado sforzi di anni, non erano mai riusciti a fare una analisi così dettagliata, per via delle difficoltà e del costo.
Purtroppo, erano gli anni della Cooperazione perversa, quando i Paesi donatori donavano soprattutto a sé stessi: il mio programma fu “abbellito” con ponti, strade, centrali elettriche, ed un sacco di altri inutili orpelli, tanto da divenire enorme ed ingestibile. Con l’Ambasciatore italiano dell’epoca, con un biologo della World Bank e con i colleghi della FAO e del PNUD tentammo di far finanziare almeno quei piccoli programmi che riguardavano sul serio i pescatori artigianali, cose semplici ma vitali, che avrebbero potuto contribuire veramente al loro sviluppo, nel rispetto delle tradizioni e della loro autonomia culturale. Ma così non è stato: o tutto o niente e, mancando i soldi per coprire tutto (o magari perché il Madagascar non era strategico!), niente. Da allora, sono tornato tante volte in Madagascar, per vari incarichi. Insieme all’Acquario di Genova, abbiamo stretto un accordo di cooperazione scientifica con l’Università di Antananarivo, nel cui ambito stiamo riproducendo con successo numerose specie animali protette, al fine di evitarne l’estinzione.
Ho girato il Paese in lungo ed in largo, vedendo isole, laghi, monti, cascate, foreste, animali e soprattutto, la gente. Ho parlato con Ministri, Direttori Generali, Ambasciatori, Rettori, contadini e pescatori, ritrovando ovunque contatti umani forti e sinceri.
Il Madagascar, purtroppo, ha avuto un problema dietro l’altro nell’indifferenza generale: deforestazione selvaggia, tifoni devastanti, malaria, epidemie ed anche la peste, con una recentissima lotta per il potere presidenziale, che ha causato molte vittime tra la povera gente.
Il Madagascar è un paese magico, ma tutte le magie hanno bisogno di particolari condizioni per continuare a ripetersi. Non sarebbe una responsabilità di noi Paesi ricchi fare in modo che la magia possa continuare, aiutando questa gente meravigliosa a ritrovare se stessa ed i suoi valori, che nulla hanno da invidiare ai nostri?
F I N E
Dott. Antonio Di Natale, responsabile scientifico dell'Acquario di Genova
Antonio Di Natale è responsabile scientifico dell'Acquario di Genova, Direttore dell'Istituto di Ricerca Aquastudio e vice-Presidente del Comitato scientifico della Pesca della C.E., oltre che componente di numerosi comitati scientifici di Enti internazionali e nazionali. E' autore di circa 200 pubblicazioni sulla gestione delle risorse e su specie marine ed ha esperienze in decine di Paesi. Si occupa da anni di conservazione e gestione delle risorse acquatiche e tutela dell'ambiente.
(da Speciale Madagascar i Quaderni di Berenice)
Quando, nell’estate del 1986, ricevetti una telefonata, con la quale mi veniva richiesta la disponibilità per assumere la responsabilità scientifica di un progetto per l’aiuto alla pesca artigianale nel Faritany di Tuléar in Madagascar, chiesi un giorno di tempo per rispondere.
Immediatamente dopo, esaminai con cura cartine e documenti della mia biblioteca, tentando di capire di quale angolo di quella enorme isola si trattasse: era il grande sud, che sulla mappa appariva quasi sprovvisto di vie di comunicazione. Un’ulteriore telefonata: un mese per sistemare i lavori in corso in Italia, presso il mio istituto di ricerca a Messine poi via, di nuovo in Africa dove ero cresciuto.
In effetti con una buona dose di incoscienza, avevo accettato uno dei lavori più affascinanti che io abbia fatto sinora. Si tratta di fornire alla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri uno strumento-quadro per programmare eventuali aiuti al settore della pesca artigianale in una delle zone teoricamente più depresse del Paese ma, anche, quella con le maggiori prospettive di sviluppo.
Certamente, le mie precedenti esperienze africane e l’assoluta predisposizione a coinvolgermi in culture diverse, con il massimo rispetto per le stesse, mi hanno fatto programmare ed eseguire questo lavoro in maniera tale da ottenere risultati interessanti.
Quando sono arrivato per la prima volta ad Antananarivo, sull’altopiano malgascio, era un caldo pomeriggio d’agosto del 1986 e la prima che mi colpì fu l’atmosfera che mi circondava e gli atteggiamenti della gente.
L’atmosfera del Madagascar è “magica”: è fatta di sensazioni forti, di odori, di colori e di suoni, ma è l’insieme che la rende diversa dalle tante situazioni similari che si hanno in vari punti del continente africano.
È l’isola continente, nel suo essere tale, pur nel suo gigantismo, a svolgere un ruolo chiave, racchiudendo quest’atmosfera tra i mari che la circondano. Le specie animali e vegetali che la abitano ed i forti contrasti del suo paesaggio non fanno altro che accrescere le sensazioni.
La gente, poi, è incredibile: i malgasci, strana mescolanza di almeno 18 etnie locali e di un numero imprecisato di apporti genetici stranieri, ha una vitalità ed una gentilezza difficilmente riscontrabili in altri popoli. Gli sguardi intensi e vivaci, hanno nei bambini una espressione di felicità e curiosità incredibili.
Eppure, la maggior parte dei malgasci ha una vita non facile e l’economia del paese è una delle più povere e disastrate del mondo, nonostante il Madagascar non sia assolutamente povero di risorse naturali.
Qui, infatti, la natura è stata creativa e generosa: c’erano foreste immense e ricche di specie vegetali ed animali, mancano completamente gli animali feroci , ci sono essenze arboree preziose (quali il teak, il palissandro, l’ebano e il legno di ferro) la frutta ha una varietà cospicua ed è saporitissima, verdure e cereali richiedono tanto lavoro, ma crescono bene, gli zebù sono presenti ovunque e hanno carni gustose, il terreno è ricco di minerali e di giacimenti di pietre preziose e semi-preziose, il Canale di Monzambico nasconde giacimenti di petrolio, le acque che circondalo l’isola sono ricche di pesci e di crostacei , solcate da capidogli, balene e delfini.
Molte tra le specie animali e vegetali che vivono nell’isola-continente sono endemiche ed esclusive ed alcune hanno forme bizzarre: l’Ave-Aye, il lemure notturno dal grande dito, ne è il simbolo più rappresentativo. Tra le 12 specie di baobab conosciute, ben 10 sono tipiche del Madagascar, mentre lemuri e camaleonti hanno qui la loro terra ideale.
Eppure, il Madagascar aveva ed ha una economia disastrata, che lo pone tra gli ultimi paesi al mondo in termini di reddito. I pirati prima, le grandi potenze poi, i regimi corrotti e collegati ad interessi stranieri più recentemente, hanno fatto sì che questa isola ricchissima accumulasse un’enormità di problemi, dove quelli ambientali non sono tra gli ultimi.
Ben l’80% della foresta primaria originale è ormai scomparsa, scoprendo il suolo e rendendolo improduttivo dopo qualche anno,: le risaie producono un riso di buona qualità ma costituiscono un luogo ideale per le zanzare ed il Madagascar ha tutti i ceppi di plasmodio conosciuti, anche i più letali; i parassiti sono diffusissimi, così come molte malattie tropicali, portando l’aspettativa di vita, allora sotto i 27 anni.
Ecco, tutto questo insieme mi avvolge completamente, quel lontano giorno del 1986.
Guidavo una missione composta da un ingegnere(Giorgio) e da un logistico (Giuliano), quest’ultimo molto esperto di paesi difficili. Avevamo scelto di non abitare in albergo, ma di affittare un piano di una palazzina nel centro di Antananarivo, di proprietà di un inglese un po’ matto (Mike Swatton), a pochi passi dal palazzo presidenziale, per sentirci a casa e per compenetrarci meglio nella realtà locale. Arrivammo lì che era già tardo pomeriggio e l’accoglimento del personale di servizio (tantissimi !) ci fece dimenticare il lungo viaggio.
Pian piano iniziammo a predisporre la missione: grazie a Mike, superammo infiniti ostacoli ministeriali, fatti spesso di burocrazia apparentemente complessa.
Ci richiesero una quantità inimmaginabile di foto-tessera: ne servivano otto per ogni permesso o qualunque documento e penso che ce ne siamo ancora mucchi delle mie in chissà quanti uffici pubblici malgasci.
L’Ambasciatore italiano ci accolse familiarmente, così come le funzionarie dell’Ambasciata, gentili e carine: eravamo un gruppo un po’ atipico e squinternato tanto che una di loro ci prestava spesso la sua jeep con targa diplomatica, per i nostri giri serali cittadini.
Nell’affitto della casa era prevista anche una vecchia jeep Toyota Land Cruise passo lungo, serie anni 50, di colore arancio scuro, con il tetto bianco: tutti la conoscevano a Tanà e diventò la nostra compagna fedele di tanti giorni e notti in città.
Con molta pazienza, dopo aver ottenuto montagne di permessi e l’appoggio della Direzione Generale delle Acque e delle Foreste, organizzammo la spedizione sul terreno che doveva esplorare in dettaglio l’intera costa del FARITANY DI TULEAR.
Una mattina alle primissime luci dell’alba, iniziammo la nostra lunga avventura: avevamo una jeep Toyota Land Cruise passo lungo, nuova, e con aria condizionata, seguita da un camioncino 4x4 Kia, entrambe cariche di carburante, tende, attrezzature e viveri in quantità sufficiente per oltre 45 giorni. L’equipaggio era formato, oltre a Giuliano, Giorgio e me, da un personaggio incredibile , il cuoco (Papa), un vecchio malgascio sopravvissuto a se stesso, altissimo, magro ieratico e dalla risata contagiosa , un autista portoghese, certamente figlio di parenti di pirati ed un secondo autista malgascio.
Decidemmo di iniziare dalla parte più a nord del Faritany, ponendo una prima tappa a Morondava, sul canale di Monzambico, alla foce del fiume omonimo. Costeggiando il massiccio dell’Ankaratra (2642 m), iniziammo a percorrere l’altopiano in direzione sud, passando per Ambatolampy, cittadina famosa per le cascate e, soprattutto, per i gamberi di fiume e le rane, dirigendoci poi per Antsirabe, la vecchia residenza del re. Da qui, seguimmo la strada verso est, iniziando la lunga discesa verso la costa.
L’altipiano malgascio è un susseguirsi di boschetti e di risaie, di alti alberi e vestigia di una foresta che c’era, con rilievi ricoperti di terra rossa, spesso solcata ferocemente dall’acqua che da un aspetto rugoso al terreno. La abitazioni sono particolari, spesso a più piani, fatte di mattoni crudi e rivestiti di terra rossa, con piccole finestre e tetti di paglia. Qualcuno ha sostituito la paglia con la lamiera ondulata: ne fanno un punto d’orgoglio, ma la casa non respira più. La gente ha abiti colorati, spesso con copricapo piccoli, che qualche volta ricordano quelli andini. La musica non è rara: si sentono flauti e strumenti a corda, ma anche piccoli tamburi. Sono nenie struggenti e dolci, che si sposano benissimo con l’ambiente e che danno la misura del modo di vivere di questa gente.
Ad un certo punto, passiamo accanto ad una sorta di processione, fatta di gente che balla e che suona, vestita con colori allegri, ma alcuni trasportano un corpo avvolto in teli: si tratta di una cerimonia animistica tipica del Madagascar, che consiste nel disseppellire il congiunto defunto, cambiare i teli che lo avvolgono e portarlo in giro per il villaggio, per tenerlo al corrente delle novità, una cerimonia che si conclude solitamente con il sacrificio di uno zebù, mangiato da tutto il villaggio.
Proseguiamo sulla strada, sorpassando camion Mercedes che un tempo erano di colore verde scuro, carichi oltre ogni possibile immaginazione, nascosti da cortine fumogene che vengono dagli scappamenti esausti.
Nella discesa verso la costa, passiamo sul lungo fiume Mania, laddove questo si congiunge con il Tsiribihina, dando luogo ad un corso ampio e ricco d’acqua con larghe pozze ove si concentrano uccelli acquatici ed anfibi. Prima di arrivare a Morondava, attraversiamo vaste distese di alberi isolati e di palme, suggestivi nella luce del tramonto.
Morondava è un porto importante per la comunità Vezo, i pescatori nomadi del sud del Madagascar: qui c’è un cantiere navale, ove si costruiscono barche a vela, con uno o due alberi, per il trasporto delle merci sul piccolo cabotaggio e, in prossimità del cantiere, c’è anche una grande cella frigorifera, gestita allora da una piccola società franco-malgascia, dove viene accumulato e smistato il pesce portato dalle piroghe.
Lungo la riva destra della foce del fiume Morondava c’è il villaggio dei pescatori Vezo, con le loro capanne, le loro attività e i loro mastri d’ascia.
Qui vengono costruite le famose piroghe: ci sono quelle Monoxile, scavate in un unico tronco, lunghe, strette e filanti, atte a contenere da uno a due pescatori, con loro corpi leggeri ed atletici. Vengono utilizzate per la pesca costiera, sia con reti da posta che con lenze a mano, ma anche lungo i corsi d’acqua più calmi e nelle lagune. Manovrarle richiede doti di equilibrio notevoli e devono sperare di non avere mai problemi. All’epoca una piroga del genere, ben fatta e con un remo, costava l’incredibile cifra di circa 5 dollari. Ma le piroghe più belle sono quelle tradizionali a bilanciere, ove si concentrano secoli di sapere marinaresco. Su uno scafo monoxile di base, vengono poi aggiunte delle tavole da murata, alle quali si aggancia, con un complesso sistema di legature ed incastri, il pesantissimo bilanciere, fatto in legno massiccio e duro. Al centro della piroga si colloca una strana tavola a cinque fori, nei quali vengono posti i due pali che sorreggono la vela. Le manovre si attuano cambiando la posizione dei due “alberi” tra i fori. La vela è spesso una semplice “lamba”, il telo di cotone multiuso tipico dell’abbigliamento malgascio: serve da pareo per le donne, per trattenere al corpo i bimbi più piccoli, per trasportare merci ed oggetti, come coperta leggera, e, anche, come vela.
Queste piroghe sono caratteristiche dei pescatori Vezo: si vedono filare veloci lungo la costa o al largo, con le piccole vele. Quelle di dimensioni minori sono utilizzate per la pesca, altre più grandi per il trasporto del pesce dai villaggi alle zone di concentrazione del pescato, quelle molto grandi servono da trasporto merci o per le occasioni in cui l’intero villaggio decide di spostarsi, inseguendo i pesci lungo le loro rotte.
L’attività del villaggio Vezo di Morondava è quella tipica, con le piroghe che prendono il largo alle prime luci del giorno ed i pescatori che rientrano nel pomeriggio con il loro carico di pesce, che viene poi trasportato dalle donne. I grossi pesci vengono portati in equilibrio sulla testa, talvolta con un seguito di bimbi festanti.
All’epoca Morondava aveva due alberghi, uno fatto di bungalow tra le palme, gestito da un francese (dove noi alloggiammo, per via dell’ottimo cibo, e l’altro, il Grand Hotel (!!!!), gestito dall’inglese, che ci ospitava a Tanà. Questo albergo era tipicamente coloniale, in legno e con arredi tipici malgasci, ma il suo confort era più che discutibile, così come le frequentazioni: l’ampia hall era affollata di giovanissime donne, talvolta avvolte nei loro coloratissimi lambauani dentro strettissime T-shirt di cotone, souvenir di precedenti “amici” europei. L’atmosfera era allegra, seppure ricoperta da un manto di umida decadenza, nella penombra costante, rotta dal lento roteare delle pale del ventilatore a soffitto.
Questo primo contatto con la comunità Vezo ci introdusse immediatamente nel loro mondo, fatto di conoscenza di mare e delle specie, di credenze e paure, di lunghe giornate solitarie in mare e da notti intorno al fuoco. Importanti e preziose per il nostro lavoro furono le chiacchierate, tramite il nostro interprete, con il presidente dei pescatori del villaggio e con i mastri d’ascia, persone che conoscevano in dettaglio la vita anche delle comunità vicine.
Questo metodo d’indagine si rivelò essere il migliore: per tutta la durata del viaggio continuammo a chiedere informazioni ai pescatori, soprattutto in merito ai villaggi vicini, in modo tale da sovrapporre le informazioni ed i dati e confrontarli con i rilievi diretti.
Da Morondava decidemmo di spostarci subito verso nord. Dapprima in jeep, verso Belo Tsiribihina, una cittadina piccola e tranquilla, posta alla foce del fiume omonimo. In effetti, però, la foce nell’ultimo tratto diviene un ampio delta, ricco di piante e uccelli acquatici, tra i quali aironi e garzette la fanno da padroni, ma anche gli ibis sono abbastanza frequenti. Il villaggio è pulitissimo, con gruppi di maiali in libertà che provvedono ai bisogni di nettezza urbana, eliminando qualsiasi tipo di rifiuto. Allora c’era un piccolo albergo dimesso, con un bar e un ristorante non più in funzione, delizioso nel suo stile coloniale in legno e muratura, con elementi di preziosità artistica piuttosto rari da quelle parti ed un vasto cortile interno. La gente è ospitale e tranquilla, la frutta abbondante e profumata, le papaye raccontano poesie di gusto, i granchi abbondano, ma abbondano anche le zanzare che, sul far del crepuscolo, assumono comportamenti tipici delle squadre d’assalto. Gli effetti, purtroppo, si vedono, data l’ampia diffusione della malaria.
La strada che collega Belo a Morondava ha una foresta secondaria a fusto alto, piuttosto “secca”, ma gli alberi brulicano di vita, mentre i lemuri Tsifaka riposano tranquilli tra i rami o saltano come molle da un albero all’altro, leggeri quasi fossero fatti di piume ed elegantissimi nella loro livrea candida e con il volto circondato da peli colorati.
Tornati a Morondava, decidemmo di risalire la costa in una zona dove non esistevano piste praticabili e, quindi, la piroga era l’unico mezzo possibile.
Con una lunga navigazione, arrivammo in prossimità della foce del Manambolo, dove un improvviso fortunale ci costrinse a fermarci in un piccolo villaggio stagionale di nomadi Vezo, posto lungo una spiaggia surreale. Qui la bassa marea schiudeva alla vista uno spettacolo che non avrei mai più rivisto:un fondale di sabbie e lamelle di mica , che riflettevano la luce del sole come uno specchio, in modo abbagliante. La gente del villaggio, poverissimo, ci accolse con estrema gentilezza e curiosità, mentre i bimbi ci saltellavano intorno, curiosi e spaventati. Restammo al villaggio due giorni, dormendo nella migliore capanna, coprendoci con vele indurite dalla salsedine e condividendo con i pescatori e le loro famiglie, un caffé fatto con acqua salmastra, dove le zanzare affogavano lente, ma che al mattino, ci sembrava quello buono del bar sotto casa (cosa è capace di fare la nostra mente!). I pescatori del villaggio affidavano il pescato di gamberetti alle mogli, che provvedevano a spanderlo sulle sabbie caldissime della parte alta della spiaggia. Qui, in questo che io chiamai “ il campo dei gamberi, i piccoli crostacei si essiccavano in fretta e, dopo qualche giorno, venivano recuperati setacciando al vento la sabbia finissima. Altrove, vicino alle piroghe, c’era una sorta di grande stenditoio, con appesi pesci ad essiccare, tenuti aperti da piccoli pezzi di ramoscelli.
In effetti questo era il modo migliore per rendere trasportabile il pesce e i crostacei, dato che, una volta essiccati, potevano essere portati ovunque nel paese, senza bisogno di ulteriori accorgimenti di conservazione. L’economia del troc, in questa piccola comunità, era basata sullo scambio di questi prodotti, dai quali ricavavano anatre, attrezzi da pesca e vestiario.
Quando il vento e il mare ritornarono calmi, riprendemmo la via del sud per tornare a Morondava e ricordo ancora l’emozione di vedere tutti gli abitanti del villaggio, uomini e donne, circondati da tanti bambini festanti, schierati lungo la spiaggia, spesso con l’acqua sino alla vita, che ci salutavano quasi come si saluta un parente: “celoma”, carissimi amici del mare, spero che la vostra vita scorra dolce come l’acqua del mare tra la sabbia.
A Morondava, intanto, il nostro equipaggio aveva completato le provvigioni, rimpinguate anche con anatre e galline vive. Insieme a Giuliano prendemmo la decisione di non seguire necessariamente la pista principale ma di tentare di seguire il profilo della costa, in modo tale da poter raggiungere tutti i villaggi di pescatori. Gli autisti non erano per nulla contenti, poiché immaginavano le difficoltà e gli ostacoli di un percorso spesso inesistente: il segnale più brutto fu quando tornarono alle auto con la faccia cupa, dopo aver comprato una quantità spropositata di pezze per le camere d’aria, dicendoci che sicuramente non sarebbero state sufficienti!
L’unico sereno e allegro era Papa, il cuoco, felice di poter vedere una parte del suo Paese che lo incuriosiva: era una sorta di monumento vivente e così sarebbe quasi diventato una leggenda! Il suo volto ieratico era illuminato da uno sguardo acuto e gioioso, pieno di curiosità: era lui che incitava tutti gli altri, lui che ci avrebbe accudito e coccolato con i suoi manicaretti improvvisati nei posti più impensabili.
Da questo momento in poi, sino a Tulear, tutto sarebbe stato all’insegna dell’improvvisazione organizzata! La pista che si diparte da Morondava è affascinante in molti tratti, tra i giganteschi baobab (ADANSONIA GRANDIDIERI) che si slanciano verso il cielo. I saggi chiamano il baobab “il grande padre della foresta” e narrano che un giorno, tanti secoli or sono, fosse un albero splendido ed enorme, con una grande chioma rigogliosa. La sua bellezza gli faceva dichiarare sfrontatamente di esser l’albero più bello e questo fece irritare Dio che, in preda all’ira, lo estirpò piantandolo sottosopra: secondo la leggenda, è proprio questa la leggenda del baobab!
Lungo il percorso, se ne trovano di enormi, con un tronco di svariati metri di diametro, mentre altri si abbracciano in modo inconsueto, dando luogo a forme strane.
Le piste sono dure, difficili, pericolose, solitamente solitarie. Talvolta, però, si incrociano pick-up Peugeot stracarichi di viaggiatori: erano un pericolo per sé e per gli altri, anche se i guidatori avevano l’abilità dei funamboli.
Ankevo è stato uno dei primi villaggi incontrati, pulito e ordinato, con le sue capanne e le sue piroghe, su una spiaggia biancastra racchiusa da basse rocce. La pista per Belo, invece scompare presto in una vasta zona di sabbie frammiste a mangrovie, impossibile da percorrere con le alte maree. Quando la bassa marea, invece fa ritirare le acque, ecco comparire migliaia di granchi violinisti, timidi e sfacciati nello stesso tempo, che rendono il terreno brulicante. Belo ha anche delle piccole saline, importanti per l’economia e la salute del Madagascar.
Proseguendo per Antoba, gli insabbiamenti sono sempre più frequenti e le forature iniziano a diventare quasi costanti. I panorami sono belli ed inconsueti, dai colori forti e con tanti spunti per fotografie. L’arrivo in ogni villaggio di pescatori è circondato da una curiosità notevole: in alcuni posti avevano visto un bianco oltre vent’anni prima, quindi il nostro passaggio fa notizia.
Prima di partire dall’Italia, mi ero posto il problema di cosa portare in omaggio nei vari villaggi, sapendo che si trattava di aree dove mancava quasi tutto. La mia filosofia di vita mi ha sempre imposto il massimo rispetto della dignità di ogni persona ed un umile approccio con le culture locali. Decisi, quindi, di portare con me una serie di regali utili: per i capi villaggio o per i presidenti delle comunità di pescatori avevo una scorta imponente di coltellini multiuso cinesi, una copia praticamente identica di quelli svizzeri, più famosi e molto più costosi; per la comunità, invece, avevo preparato delle buste di plastica, con dentro un buon assortimento di ami e diverse matasse di vario spessore di filo da lenza. Inoltre, pacchi e pacchi di matite e di penne biro, più varie confezioni di block-notes.
La scelta fatta si dimostrò vincente e valida: i capi villaggio ed i presidenti dei pescatori erano fierissimi del loro coltellino multifunzione, mentre i pescatori apparivano entusiasti per il dono degli ami e delle lenze. Quando ebbi modo di ritornare in qualche villaggio, dopo qualche anno, mi spiegarono che quel piccolo dono aveva significato un aumento notevole della capacità economica del villaggio e, in alcuni casi, la comunità ne aveva tratto vantaggi impensabili.
Infatti (ma di questo non ero assolutamente a conoscenza prima del mio lungo girovagare), i Vezo non hanno materia prima per costruirsi attrezzi da pesca ( ad eccezione di qualche nassa) e, quindi sono costretti ad acquistarli o ad inventarseli con materiale di fortuna.
Per acquistarli, normalmente si rivolgono a commercianti locali che sono spesso collegati alle poche società commerciali che raccolgono il pesce e lo veicolano all’interno del Madagascar o anche all’estero. In questo caso, le attrezzature vengono date ai pescatori a fronte di un impegno a fornire il pescato in modo esclusivo.
Per “crearli”, invece, attendono la buona sorte. Particolarmente apprezzati sono i vecchi pneumatici radiali, talvolta trovati semi-distrutti lungo la pista, qualche volta portati dalle violenti mareggiate e provenienti da chissà dove. Il pneumatico viene immediatamente aggredito e si iniziano a recuperare i fili di materiale sintetico che costituiscono la struttura del radiale. Questi, quindi, sono utilizzati per annodare una rete, normalmente di piccole dimensioni. I galleggianti sono sostituita da piccoli pezzi di legno leggero, mentre i piombi sono sostituite da conchiglie, spesso piccoli Turbo. Talvolta, per assicurare alla rete una colorazione scura, si utilizza il lattice di una pianta grassa, che viene spalmato sui fili e che,quando si asciuga, assume una colorazione bruno nerastra, I nostri pescatori, abituati a strumenti sofisticati, inorridirebbero davanti ad una rete del genere, ma loro non sono riusciti ad inventarsi niente di meglio.
Per gli ami, invece, occorre aspettare che il mare o la sorte facciano arrivare un pezzo di legno con i chiodi. In tal caso, questi vengono lavorati dal pescatori, ribattendoli sino a trasformarli in ami di varie dimensioni.
Sinceramente sono condizioni inimmaginabili per noi.
A causa della impossibilità materiale di proseguire lungo la costa, decidemmo di addentrarci all’interno, per sostare a Manja, dove arrivammo in tarda serata. Qui c’era una capanna con la scritta “Hotely”, dove ci installammo, con tutto il nostro seguito. Ma quale fu la sorpresa degli abitanti quanto Papa, vanesio come un tacchino, decise di prepararci la cena con in testa il suo cappello bianco da cuoco! In pochi minuti, gran parte degli abitanti si radunarono fuori dall’Hotely, la cui proprietaria si mostrò imbarazzatissima: non aveva compreso l’importanza dei suoi ospiti! Dopo cena, a me toccò un comodo letto (dopo tante notti sotto la tenda), nella cipollaia dell’Hotely, una sorta di capanna divisa in due, dove venivano ammonticchiate cataste di cipolle odorose. Fu una notte indimenticabile, l’ideale per un entomologo, soprattutto scuotendo gli scarponi al mattino prima di indossarli. La pioggia di grandi scarafaggi che ne venne fuori mi fece comprendere che il luogo era molto frequentato e apprezzato, anche da questo tipo di ospiti!
L’attraversamento del fiume Mangoky fu difficilissimo, dato che le rive sabbiose erano una sorta di barriere insormontabili. I nostri due mezzi si tiravano fuori dalla sabbia a vicenda, ma talvolta era necessario farlo a forza di braccia: ci vollero diverse ore, prima di arrivare alla chiatta che, uno alla volta, li traghetto dall’altra parte, mentre Giuliano, Giorgio ed io attraversammo il fiume a nuoto, per abbassare la temperatura corporea e per eliminare la sabbia che le ruote dei mezzi interrati ci avevano spruzzato ovunque.
Dopo Andronopasy, Ambohimbo, Ankarona, nel delta del Mangoky, Morombe ci accolse con una nebbia degna della Bassa Padana, con il mare in tempesta, in un ambiente quasi surreale e ovattato. Qui la barriera corallina ha subito gli assalti dei raccoglitori di conchiglie e di oloturie, le prime dirette ai mercati italiani, e le seconde a quelli asiatici. Faceva un po’ pena vederla così spoglia, tra le acque poco trasparenti per via degli apporti dei fiumi, ma era ancora un sito pieno di pesci ed i Vezo sembravano apprezzarlo moltissimo.
Si attraversavano ambienti estremamente vari, passando dai baobab agli alberi bottiglia (talvolta ricoperti da centinai di piccoli pappagalli verdi), dagli alberi del viaggiatore alla foresta spinosa di Didieracee, dai mangrovieti della costa alle distese di piante acquatiche dei grandi delta, dalle palme da cocco delle grandi spiagge ai piccoli fiori tra le rocce e le sabbie. Spettacoli naturalistici indimenticabili, racchiusi tra albe dai colori intensi e tramonti tropicali che andavano dall’arancio al rosso al viola, in un caleidoscopio affascinante. Talvolta, le piste (ma chiamarle così è un complimento!) erano scavate da una pioggia improvvisa e si trasformavano in sentieri sconnessi, altre volte occorreva fare attenzione alle grandi tartarughe radiate (una specie minacciata e protetta), che decidevano per la via più comoda che era proprio il solco della pista: passarci sopra avrebbe significato forse la loro morte e certamente il capovolgimento del nostro mezzo.
E la gente dei vari villaggi, dove talvolta vedevi dei visi intensi e solcati dalla salsedine dei pescatori, ma dove potevi incrociare lo sguardo dolcissimo e languido di una splendida fanciulla distesa all’ombra della sua capanna, in prossimità della spiaggia. Avevamo riscoperto l’enorme importanza dell’albero del villaggio, spesso un gigantesco mango, sotto il quale, all’ombra, un maestro teneva le sue lezioni ai bimbi o dove gli anziani (ma erano poco più che miei coetanei, purtroppo!) tenevano il consiglio.
Foca, Ambavadoca, Befandela, Ambohitsabo, Solary, Tsifoka, Monomio, Andavo, Ifaty, i villaggi scorrevano uno dietro l’altro, come i giorni e le notti. In ogni posto un incontro, lunghi scambi di informazioni, sorrisi e gentilezze, , ma per me si trattava di un mondo che mi si apriva dinanzi, ricco di cultura e saggezza marinara.
Poi finalmente Tulear, la cittadina attraversata dal Tropico del Capricorno, con i suoi venditori di conchiglie intorno alla piazza della strada principale, i suoi pousse-pousse, la sua vita quasi frenetica, dopo tanti giorni di piste e silenzio. Finalmente un albergo, una doccia, un letto con lenzuola. Nel giardino un Lemur Catta con cui giocare festosamente, corrompendolo con le piccole banane dolci, mentre saltava veloce ovunque, per mostrarsi vezzosamente con la coda ad anelli bianchi e neri.
Tulear in effetti, è la capitale dei Vezo, sede di una Università importante e di una storica Stazione di biologia Marina, dove con l’aiuto di esperti della FAO e di università europee, si studiano i complessi meccanismi della ricchissima barriera corallina che si trova a sud della città, una delle più affascinanti dell’Oceano Indiano, particolarmente ricca di specie per via della particolare idrografia del canale di Monzambico.
Dopo esserci ritemprati, avere acquistato qualche nuova camera d’aria per le ruote dei nostri mezzi di trasporto e dopo una serie interminabile di incontri ufficiali con le autorità locali e con i colleghi della FAO, ricominciamo il cammino lungo la strada dell’estremo sud, spesso tra le foreste spinose dotate di un fascino estremo. Una notte ad esempio abbiamo la ventura di sentire un po’ di pioggia sulle nostre tende, niente di particolare. Ma la mattina, una volta arrivata la luce dell’alba, intorno a noi si aprì un mondo incantato, dove le secche piante spinose della sera prima, si erano trasformate in verdissimi esseri pieni di foglioline sottili. Al termine della giornata soleggiata, molte specie avevano anche dei fiori, generalmente piccoli e vistosi. Leggendo sui libri è una cosa, ma vedere questo spettacolo dal vero si ha la stessa impressione di trovarsi in un luogo magico e incantato.
Anakao è un importante villaggio Vezo subito a sud di Tuléar, al di là dell’ampia foce del fiume Onilahy, nella Baia di St.Augustin. Già nel 1986 c’era una piccola attività turistica, gestita da un francese piuttosto noto nella zona, che poi morì tragicamente e romanzescamente qualche anno dopo, chiudendo in modo coerente la sua travagliata esistenza. Lui gestiva le piroghe che portavano i turisti da Tuléar ad Anakao ed un piccolo lodge con capanne per turisti sulla spiaggia, ma era ovunque famoso per la sua importante collezione di conchiglie, dovuta all’opera incessante dei suoi amici pescatori.
Le isolette a sud di Anakao hanno ancora i resti di qualche tomba dei pirati, che frequentavano queste acque soprattutto nel ‘700, ma sono altrettanto note per l’elevata qualità delle vongole, comunissime sui bassi fondali che le circondano verso terra.
Da queste parti sopravvivono le vecchie tradizioni Vezo e non è infrequente vedere una fila di piroghe, dalla quale si propaga una musica ritmata, che accompagna la sposa ed i suoi familiari al villaggio dello sposo, per il rito e la festa.
La strada statale passa all’interno, troppo per le nostre necessità e, quindi decidiamo di tentare la pista costiera, dove esiste. La pista del sud è molto difficile e raggiungere Beheloko, Anja Belitsaka ed Itampolo ci fa comprendere che il tratto che ci aspetta ci riserverà molte sorprese. Qui i villaggi sono sempre più brulli, le capanne risentono della temperatura spesso elevata, ma la gente è sempre cordiale. Intorno ai villaggi, spesso, ci sono piccoli cimiteri, pieni di steli lignei scolpiti, una caratteristica del sud. Vederli significa fare un tuffo nella vita del passato, dato che ogni stele rappresenta alcune delle scene più peculiari della vita del defunto.
La caccia delle grandi tartarughe marine (generalmente la tartaruga verde) è praticata con alcune precauzioni. Anche i Vezo comprendono che non si possono sterminare le tartarughe marine, malgrado per alcuni villaggi questa si una delle poche opportunità di mangiare carne. Per questo alcuni adottano una tecnica, che può apparire crudele a noi occidentali urbanizzati, ma che ha un profondo senso di rispetto per gli animali e gli abitanti del villaggio. Quando una tartaruga viene catturata e uccisa, la carne viene distribuita tra gli abitanti e dura per diversi giorni. Se, per caso, fosse possibile catturare una tartaruga nello stesso periodo, questa verrebbe trattenuta sulla spiaggia, viva, all’ombra di una vela, per vari giorni, costituendo una riserva di cibo importante. I bimbi, in tal caso, provvedono a bagnarla periodicamente, e le regole non scritte dei pescatori dicono che non è consentito catturare più di una tartaruga per volta, oltre quella che sta per essere consumata.
Arrivare ad Androka è un’impresa, soprattutto quando le piogge ingrossano il Linta, il più importante fiume del sud. Il guado è impraticabile ed abbiamo due alternative: fermarci per un numero indefinito di giorni, aspettando tempi migliori, o tentare di trovare un guado a monte, fuori pista. Scegliamo la seconda opzione, ma sconsiglierei a chiunque di seguire la nostra strada. Passiamo da un villaggio tipico del sud malgascio a contrafforti rocciosi densi di vegetazione. I nostri mezzi sobbalzano sulle pietre e siamo costretti a fermarci più volte, per riparare le gomme, squarciate in più punti. Ormai, siamo diventati velocissimi esperti e smontare un pneumatico, ripararlo e rimontarlo per noi non rappresenta più incognite. Infine, utilizzando torrenti secchi e sconnessi come se fossero autostrade e con l’indispensabile aiuto di un poverissimo pastore, vestito solo di un perizoma, che non aveva mai visto un’automobile e che ne era, al tempo stesso, terrorizzato e incuriosito, riuscimmo a guadare il Linta, con l’acqua allo sportello.
Ma il profondo sud del Madagascar aveva in serbo per noi una fantastica sorpresa, che ci avrebbe ricompensato di qualunque sforzo. Un giorno passando da un villaggio all’altro e parlando con i pescatori, qualcuno disse che esisteva un piccolissimo villaggio di pescatori di aragoste, che loro con superiorità, definivano “selvaggi” e “primitivi”. La cosa ci incuriosì e così iniziammo a chieder informazioni sempre più precise. Finalmente, qualcuno riuscì ad indicarci la via per raggiungere il villaggio misterioso, non segnato sulle carte.
Dopo varie ore di percorso su un tratto di costa periodicamente sommerso dal mare, dove non esisteva alcuna traccia di pneumatico di passaggio, raggiungiamo un cimitero poverissimo, con steli chiaramente molto vecchie e consumate dal tempo. Proseguiamo con estrema difficoltà e rischiamo anche che il nostro pick-up ci abbandoni, essendo precipitato in una buca piuttosto profonda.
Riusciamo con molta fatica a recuperarlo e procediamo0 verso la duna costiera. Dietro di essa, tra il mare ed un’altra fascia dunale, finalmente scorgiamo il villaggio. Ma è vuoto: gli abitanti, impauriti si sono nascosti nella vegetazione del bush, ne intravediamo qualcuno. Il villaggio è incredibile: le capanne sono fatte di sterpi ammonticchiati, mentre le aperture sono coperte con carapace di tartarughe verdi.
Le tartarughe sembrano essere le uniche fornitrici di utensili del villaggio: sono catini e bacinelle, palette e contenitori, ma anche feticci sui pali. Dopo aver fotografato tutto ed aver cercato invano di far comprendere agli abitanti che avevamo intenzioni tranquille, l’unica decisione possibile era quella di andarcene, restituendo a querlla gentil proprio mondo inviolato.
Nell’andar via, Giorgio, Giuliano ed io decidemmo di non rivelare mai il nome del villaggio e la sua collocazione geografica, al fine di proteggere la privacy di quegli abitanti particolari, che evidentemente non avevano contatti con la modernità. Ognuno di noi ha rispettato il patto e, da quel che mi risulta, il villaggio non è ancora sulle carte. Significa che nessuno ha più disturbato i suoi abitanti e spero che possano continuare a lungo nel loro isolamento, anche se temo che possa durare poco.
La costa del sud ha il suo apice rappresentativo qualche decina di chilometri prima di Betanty (Faux cap), un capo che è la parte più meridionale del Madagascar. Qui, di fronte all’Oceano, ci sono alte dune fossili, dove si trovano i resti delle uova del grandissimo uccello fossile Aepyrnis maximus. Le sabbie compatte sono ripide sul mare cristallino, dove alcuni ragazzi si bagnano. Splendida, anche la zona di Italy, un bel villaggio di pescatori in una baia dai colori incredibili, circondata da vegetazione, poco prima di arrivare a Tolanaro (Fort Dauphin). Finalmente un’altra cittadina ed un altro albergo, di proprietà del francese che gestisce la riserva del Berenty, famosa per i lemuri. Anche la ragazza dell’albergo è famosa per la sua bellezza europea, occhi color del mare e capelli biondissimi, che contrasta con le tante bellezze locali. Le strade di Fort Dauphin sono affollate, la gente commercia frutta, verdura, pesci e carne, in un “baillame” di abiti colorati. I fili elettrici tra i pali della lucerono ricoperti da migliaia di grandi ragnatele, creati da ragni dalle zampe lunghissime e dal corpo colorato. La baia in cui si trova Fort Dauphin è splendida, ma il mare è spesso mosso, agitato dai venti che percorrono la zona. Qui c’è la pesca delle aragoste, fatta con le nasse, che dà una buona varietà di specie: quelle verdi, che vivono nelle scogliere più superficiali, poco apprezzate; quelle rosse, di rocce più profonde, piuttosto gustose, e quelle nere, di zone ancora più profonde, da gran gourmet.
A nord di Tolanaro, la vegetazione è completamente diversa. Tutto è lussureggiante e verde, segno evidente della maggiore quantità di pioggia che caratterizza la zona. Ci spingiamo sulla strada costiera, superando Mamantenina. Qui è necessario attraversare un gran numero di corsi d’acqua, tra le rive colme di vegetazione. I traghetti sono delle chiatte, che si muovono lungo un cavo, talvolta a forza di braccia.
Qui, alla foce dei fiumi, vive ancora il dugongo, il grande sirenide erbivoro che sta progressivamente scomparendo dall’Oceano Indiano, cacciato ed ucciso per le sue carni saporite e per l’olio raffinatissimo che si ricava dal suo grasso. Cerchiamo di vederne uno, ma è assolutamente impossibile, anche se in diversi villaggi ci dicono di conoscerlo e di vederne qualche esemplare di tanto in tanto.
Lungo la costa del sud est del Madagascar, i villaggi sono poverissimi e l’abbondanza di piogge rende ancora più evidente la condizione di indigenza. I più poveri sono i villaggi dei carbonai, povera gente che vive vendendo o scambiando i resti delle foreste bruciate con qualcosa da mangiare o da indossare. Questi villaggi hanno capanne piccolissime ed ovunque si nota un velo di caligine. I villaggi più “benestanti” sono quelli dei pescatori di aragoste, dove, però, il tasso di alcolismo è elevato, dato che i commercianti (almeno allora!) usavano ricompensarli con il rhum, invece che con i soldi.
Al confine nord del Faritany decidiamo di rientrare a Fort Dauphin. Qui incontriamo due ragazze emiliane piuttosto mal messe, senza quattrini e disperate per una serie di disavventure e decidiamo di dar loro un passaggio sui nostri mezzi, mentre noi torniamo a Tanà con l’aereo, dopo circa un mese e mezzo di jeep.
Dopo quella ed altre due missioni, riesco a redigere un rapporto dettagliatissimo sui pestatori del Faritany di Tulèar, sui mezzi a loro disposizione, sulle loro attività e le catture e, grazie ad alcuni economisti, anche sulle loro necessità. Una copia dei dati li regalai ai colleghi della FAO che operano in Madagascar: per loro si tratta di un regalo importante, dato che, malgrado sforzi di anni, non erano mai riusciti a fare una analisi così dettagliata, per via delle difficoltà e del costo.
Purtroppo, erano gli anni della Cooperazione perversa, quando i Paesi donatori donavano soprattutto a sé stessi: il mio programma fu “abbellito” con ponti, strade, centrali elettriche, ed un sacco di altri inutili orpelli, tanto da divenire enorme ed ingestibile. Con l’Ambasciatore italiano dell’epoca, con un biologo della World Bank e con i colleghi della FAO e del PNUD tentammo di far finanziare almeno quei piccoli programmi che riguardavano sul serio i pescatori artigianali, cose semplici ma vitali, che avrebbero potuto contribuire veramente al loro sviluppo, nel rispetto delle tradizioni e della loro autonomia culturale. Ma così non è stato: o tutto o niente e, mancando i soldi per coprire tutto (o magari perché il Madagascar non era strategico!), niente. Da allora, sono tornato tante volte in Madagascar, per vari incarichi. Insieme all’Acquario di Genova, abbiamo stretto un accordo di cooperazione scientifica con l’Università di Antananarivo, nel cui ambito stiamo riproducendo con successo numerose specie animali protette, al fine di evitarne l’estinzione.
Ho girato il Paese in lungo ed in largo, vedendo isole, laghi, monti, cascate, foreste, animali e soprattutto, la gente. Ho parlato con Ministri, Direttori Generali, Ambasciatori, Rettori, contadini e pescatori, ritrovando ovunque contatti umani forti e sinceri.
Il Madagascar, purtroppo, ha avuto un problema dietro l’altro nell’indifferenza generale: deforestazione selvaggia, tifoni devastanti, malaria, epidemie ed anche la peste, con una recentissima lotta per il potere presidenziale, che ha causato molte vittime tra la povera gente.
Il Madagascar è un paese magico, ma tutte le magie hanno bisogno di particolari condizioni per continuare a ripetersi. Non sarebbe una responsabilità di noi Paesi ricchi fare in modo che la magia possa continuare, aiutando questa gente meravigliosa a ritrovare se stessa ed i suoi valori, che nulla hanno da invidiare ai nostri?
F I N E
Dott. Antonio Di Natale, responsabile scientifico dell'Acquario di Genova
Antonio Di Natale è responsabile scientifico dell'Acquario di Genova, Direttore dell'Istituto di Ricerca Aquastudio e vice-Presidente del Comitato scientifico della Pesca della C.E., oltre che componente di numerosi comitati scientifici di Enti internazionali e nazionali. E' autore di circa 200 pubblicazioni sulla gestione delle risorse e su specie marine ed ha esperienze in decine di Paesi. Si occupa da anni di conservazione e gestione delle risorse acquatiche e tutela dell'ambiente.
Iscriviti a:
Post (Atom)