mercoledì 11 maggio 2011

Biopirati dei Caraibi

di Chiara Samorì
Quanto costa brevettare una pianta o un animale? Sembra una domanda assurda; è possibile brevettare un’orchidea, un fagiolo, un albero? Ebbene sì, e il costo per questo tipo di brevetti si aggira sui 20.000 dollari, più 5.000 dollari l’anno per mantenerlo. Vi sembra ipotizzabile ad esempio che una popolazione di indigeni del Sud America possa sostenere questi costi per avere il diritto di uso esclusivo di una pianta che cresce nella loro terra? No. Ed, infatti, a causa di questi costi, il 95% dei brevetti sui processi associati a piante e animali sono detenuti nei paesi industriali, da compagnie alimentari, farmaceutiche e cosmetiche, nonostante il fatto che il 90% delle risorse biologiche mondiali si trovino in paesi in via di sviluppo. Se poi alla popolazione indigena del Sud America venisse in mente di intentare una causa contro la casa farmaceutica che ha ottenuto il brevetto sulla sua pianta cadrebbe dalla padella alla brace perché, ad esempio, negli Stati Uniti, i contenziosi sui brevetti hanno costi medi di oltre 1 milione di dollari.
La Natura offre un’enorme varietà di organismi viventi, la biodiversità di cui si parla tanto, purtroppo costantemente sotto minaccia a causa dei comportamenti sconsiderati dell’uomo moderno; circa il 90% di tutta la biodiversità mondiale è attualmente concentrata nelle regioni tropicali e sub-tropicali definite, a questo proposito, zone di mega-diversità: Messico, Brasile, India, Indonesia, Australia, Sud Africa sono ricchissimi di specie vegetali ed animali endemiche, uniche. Un vero tesoro inestimabile per l’umanità ... e anche per le case farmaceutiche e cosmetiche! Si stima che circa 25.000-75.000 specie di piante siano usate per la medicina tradizionale, ma solo l’1% è conosciuto dagli scienziati e utilizzato a fini commerciali. Parte della moderna industria farmaceutica è sviluppata sulla base di piante scoperte e utilizzate da secoli da popoli indigeni e comunità locali, ma, purtroppo, molto spesso i benefici economici da queste derivanti non sono equamente condivisi. Attualmente moltissimi integratori alimentari, farmaci, creme, prodotti per la cura del corpo, profumi, contengono principi attivi che sono estratti da piante rare, e proprio le stesse case produttrici sono ben contente di pubblicizzare i loro prodotti indicandone la provenienza “bio”. Nel 2011 per esempio Chanel ha proposto una nuova generazione di creme anti-invecchiamento, chiamate Sublimage, arricchite con gli estratti dei frutti della Vanilla planifolia, un’orchidea tipica del Madagascar; nel mezzo della foresta Vohimana, un sito protetto e altamente ricco in biodiversità, da circa 10 anni Chanel ha creato un modello di coltivazione ombreggiato e completamente controllato dove la pianta può crescere, essere impollinata, venire raccolta ed infine essere trattata per dare un estratto ricco in polichetoni anti-invecchiamento. L’utilizzo di piante esotiche per scopi commerciali è quindi una pratica largamente consolidata e del tutto legalizzata. Diversamente dalla pratica della “biopirateria”, cioè l’appropriazione illecita di specie animali o vegetali di uno specifico paese o area geografica, non riconoscendo, rispettando e ricompensando adeguatamente i legittimi proprietari.
La Convenzione sulla Biodiversità siglata a Rio nel 1992 in occasione della Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite, sottolineava già 20 anni fa l’importanza che i firmatari facessero uno sforzo comune per preservare e mantenere le conoscenze, le innovazioni, gli stili di vita tradizionali e le pratiche delle popolazioni indigene e delle comunità locali, rilevanti per la conservazione e per l’uso sostenibile della diversità biologica; ancora più importante era la promozione di queste conoscenze, innovazioni e pratiche con l’accordo e la partecipazione dei detentori, e l’incoraggiamento dell’equa ripartizione dei benefici da esse derivanti. Non essendo, infatti, in grado di tutelare quelle forme di sapere tradizionale, i meccanismi basati sui diritti di proprietà intellettuale sono strumenti del tutto inefficaci per evitare i fenomeni di biopirateria.
Alcuni esempi pratici del passato e del presente. Probabilmente uno dei casi più famosi di biopirateria è quello relativo alla rosa pervinca , un arbusto nativo del Madagascar. Da questa pianta, nel 1954, l’azienda farmaceutica Eli Lilly mise a punto un processo estrattivo di due alcaloidi, chiamati vinblastina e vincristina, con proprietà anticancro. La vinblastina particolarmente efficace nei linfomi di tipo Hodgkin, la vincristina contro le leucemie infantili. Sebbene già nota alle popolazioni del Madagascar per le sue proprietà anti-diabetiche, la rosa pervinca venne subito brevettata dall’Eli Lilly, con il risultato che la compagnia guadagnò milioni di dollari grazie ai due farmaci anticancro Velban e Oncovin, le popolazioni indigene non ricevettero mai alcun compenso, e l’intero habitat originale della rosa pervinca in Madagascar si estinse. Non esistendo, infatti, una via sintetica per questi due alcaloidi e contenendo la rosa pervinca solo 30 grammi di vincristina ogni 15 tonnellate di foglie, si è assistito ad un rapido ed inesorabile depauperamento della risorsa.
Un altro esempio; l’Amazzonia è probabilmente l’ecosistema più ricco di biodiversità al mondo, con 80.000 specie vegetali, circa il 20% di tutte le specie note, 1.000 specie di uccelli e 200 specie di mammiferi. I casi di biopirateria in Amazzonia e in Brasile non si contano più; nel 1981, solo per citarne uno, la Bristol-Myers Squibb brevettò un farmaco contro l’ipertensione, il Captopril, a base di un principio attivo che mimava l’effetto del veleno di una vipera brasiliana, la Bothrops jararaca. Gli abitanti dell’Amazzonia sapevano bene che in seguito al morso di questa vipera il sangue si assottiglia così tanto da filtrare attraverso le pareti dei vasi sanguigni, provocando un precipitoso calo della pressione e facendo morire le vittime dissanguate. Dopo aver isolato il principio attivo, chiarito il meccanismo metabolico e sintetizzato un composto chimico analogo al veleno della vipera, la Bristol-Myers Squibb brevettò il farmaco. Né il Brasile né le comunità locali beneficiarono delle vendite del Captopril, che però ha portato nelle casse della Bristol-Myers Squibb miliardi di dollari.
Ultimo esempio in ordine cronologico. La Mary Kay è una compagnia texana fondata nel 1963 da Mary Kay Ash, da cui l’azienda prende il nome, ora colosso dell’industria cosmetica e di prodotti per la cura del corpo. Sulla pagina web dell’azienda campeggia la descrizione di un prodotto antiossidante chiamato TimeWise® Replenishing Serum+C, in grado di rafforzare il collagene e l’elastina della cute, compromessi dai danni dell’invecchiamento, e di impedirne il deterioramento. Gli “ingredienti che fanno la differenza” di questo prodotto (come spiegato sul sito) sono un mix di estratti di piante molto ricche in vitamina C, tra cui la Kakadu Plum, una specie di susina australiana, e l’Acai Berry, una bacca brasiliana. Secondo la Mary Kay, la combinazione di questi due estratti produce effetti sinergici che sono sorprendentemente benefici per la pelle; per questo motivo, la Mary Kay sta ora cercando di brevettare l’estratto della Kakadu plum (esistono già alcuni brevetti di compagnie australiane riguardo alla tecnica di estrazione della pianta).
E’ necessario però chiarire alcuni punti, soprattutto per questo caso. Uno dei requisiti fondamentali per brevettare un processo o un prodotto è la novità, cioè il processo o il prodotto deve inequivocabilmente essere un’invenzione. Una volta accertato l’elemento di novità e ottenuto il brevetto, al richiedente del brevetto viene conferito un monopolio temporaneo di sfruttamento al fine di impedire ad altri di utilizzare la stessa invenzione senza autorizzazione. Ora, i due alcaloidi estratti dall’Eli Lilly sono stati effettivamente isolati e caratterizzati dalla compagnia americana, sebbene le proprietà curative della rosa pervinca fossero già note alle comunità indigene locali, e quindi si può parlare di “novità”; anche nel caso del veleno della vipera brasiliana, la Bristol-Myers Squibb ha brevettato un farmaco che aveva come principio attivo una molecola di sintesi analoga a quella contenuta nel veleno, e quindi anche in questo caso una “novità”. La situazione della Kakadu plum e della Mary Kay però, così come di moltissime altre piante, cozza in pieno con le regole brevettuali. Innanzitutto manca l’elemento di novità: è arci-noto che la vitamina C, che abbonda nell’estratto della Kakadu plum, ha ottime proprietà anti-ossidanti molto utili per combattere l’invecchiamento della pelle, ed inoltre, già da 10 anni, la Red Earth Cosmetics, fondata in Australia nel 1989 e come concetto simile alla catena del Body Shop, vende un prodotto cosmetico a base di Kakadu plum per ridurre le rughe. Come se non bastasse, anche in questo caso le comunità indigene australiane che da sempre usano questa pianta sia nella medicina tradizionale che nell’alimentazione non sono state interpellate dalla Mary Kay prima di intraprendere la richiesta di brevetto.
Il caso Kakadu è scoppiato l’anno scorso, qualche settimana dopo il vertice internazionale delle Nazioni Unite tenutosi a Nagoya, Giappone, nell’ottobre del 2010; dopo intensi negoziati, durante il vertice è stato redatto il primo accordo vincolante a livello internazionale per evitare la biopirateria. Le nuove normative (denominate Protocollo sulla Condivisione degli Accessi e dei Benefici, ABS) impongono alle multinazionali che utilizzano piante o animali di uno specifico Paese o area geografica per sintetizzare nuovi farmaci o cosmetici, di condividerne i benefici con le popolazioni indigene, le quali a loro volta, possono avere i diritti su tali risorse. Tutte le parti firmatarie del protocollo, facendo parte di questa Convenzione sulla Biodiversità, dovranno ora istituire i propri regolamenti nei rispettivi paesi per l’accesso e la condivisione dei benefici in materia di utilizzo alle risorse genetiche e conoscenze tradizionali; poiché però gli Stati Uniti hanno firmato ma non rettificato il trattato di Nagoya, la Mary Kay, essendo un’azienda americana, può evitare questo tipo di controllo. In realtà la Mary Kay ha richiesto il brevetto già da 4 anni, ma vista l’opposizione dei gruppi indigeni e degli esperti australiani, solo di recente la domanda è stata sottoposta all’esame dell’ufficio australiano che sovrintende i brevetti. Si attende una relazione preliminare nelle prossime settimane, incrociamo le dita!

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