giovedì 19 maggio 2011

UNA PASSIONE ETICAMENTE CONDANNABILE

Gigio mi disse che non aveva paura dei malaso, i banditi dediti all’abigeato in Madagascar. Mi disse che se nella brousse, la boscaglia, i malaso dovessero incontrarlo, non lo degnerebbero neanche di uno sguardo, né lui né il suo orologio d’oro al polso, perché non avrebbe ciò che loro cercano: gli omby (zebù).
Non so quanto la sua descrizione corrisponda alla realtà e può darsi che Gigio sia un po’ fanfarone. Io me la farei sotto!
Infatti, ho sentito dire che i ladri di omby spesso sparano alle gambe ai proprietari, in modo da non essere seguiti o ritardare la ricerca. Quando sono in fuga su per le montagne e qualche zebù non ce la fa a star dietro alla mandria, lo uccidono lì sul posto, così che gli inseguitori, che nel frattempo si sono organizzati, trovano i sentieri disseminati di cadaveri bovini.
In città, i gangsters che nottetempo danno l’assalto alle abitazioni dei vazaha, per prima cosa sparano ai guardiani malgasci, così che il mestiere di custode delle case dei bianchi risulta essere fra i più pericolosi. A volte può capitare che siano i guardiani stessi a fare entrare i ladri nelle proprietà private, ma non tanto a scopo di rapina a mano armata, quanto per portar via materiale da costruzione. In tal caso, i guardiani traditori non si giocano solo il posto, ma finiscono in tribunale, denunciati dai loro ex datori di lavoro. Sono talmente numerosi i casi di questo genere, che viene il sospetto che i malgasci a cui viene data la responsabilità di custodire il cantiere di una casa in costruzione non si rendano conto della gravità del gesto.
La linea di confine tra legalità e illegalità probabilmente per i malgasci è molto aleatoria, almeno quando ci sono di mezzo i vazaha. Sembra che partano dal presupposto che, essendo ricchi, i bianchi siano una categoria di persone prive di diritti, quasi come le ambasciate: una specie di area extraterritoriale.
Tale confusione tra giusto e ingiusto forse parte da lontano, da quando sono bambini e vengono lasciati crescere senza le direttive di un adulto che li segua da vicino. Se da una parte la cosa può avere il suo fascino perché ci ricorda il buon selvaggio di Jean Jacq Russeau, dall’altra ci lascia senza parole, condizionati come siamo, noi bianchi, fin dall’infanzia a riconoscere il buono dal cattivo. O ciò che ci hanno detto sia il buono e il cattivo.
In Madagascar ho visto squadre di ragazzini armati di fionda girovagare per le periferie e le campagne e abbattere chiunque voli davanti a loro e immagino che questo sia un comportamento incoraggiato dai genitori. Resta da chiarire, poi, se quei miseri uccelletti abbattuti servano a integrare la scarsa cena della famiglia o non siano il trastullo sadico di ragazzini abbandonati a se stessi. Ciò li equiparerebbe al sadico passatempo di 750.000 italiani, adulti questa volta, che fanno la stessa cosa con strumenti ben più micidiali delle fionde.
Bisogna essere il più obiettivi possibile e tra un indio amazzonico che se ne va in giro nudo nella foresta ad ammazzare scimmie con la cerbottana e un europeo con stivaloni e giacca mimetica che se ne va in giro nelle nostre altamente antropizzate campagne a sparare a galline travestite da fagiani, è giusto essere indulgenti con il primo, ma condannare recisamente il secondo. Che è quello che una parte di cittadini fa da molti anni, provando a fermare quell’esercito di sparatori, spalleggiati dalle industrie armiere, che per sette mesi l’anno vengono autorizzati a disseminare pallini di piombo, uccidere e ferire gli animali e mettere a repentaglio la sicurezza di escursionisti, residenti di case isolate, campeggiatori e cercatori di funghi.
Per manifestare la propria contrarietà verso la caccia, così com’è praticata nei paesi ricchi, ci sono modi più o meno legali e si va dal bruciare i capanni da caccia (senza il cacciatore dentro) al partecipare a cortei e manifestazioni di vario genere; dal bucare le ruote delle auto dei cacciatori, all’indire conferenze e assemblee pubbliche, con tanto di documentario e relatore ben informato. Esiste, in Italia, anche l’associazione delle vittime della caccia, paragonabile a quelle delle vittime delle stragi di Stato o degli incidenti in fabbrica e nei posti di lavoro.
Se giustamente esiste una legge che, nei cantieri di lavoro, prevede una serie di misure di sicurezza per i lavoratori, niente del genere è previsto per chi se ne va in giro armato in campagna. Nei paesi del centro e nord Europa, ai cacciatori è fatto obbligo di indossare tute fosforescenti, gialle o arancioni, che li rendano visibili, per la loro e altrui sicurezza. In Italia è esattamente il contrario e sembra che vestirsi con abbigliamento mimetico sia indispensabile per il provetto cacciatore, come se gli animali fossero così miopi da non accorgersi del pericolo, benché munito di giacca militar-leopardata.
Si assiste poi a un curioso fenomeno, che può essere definito come una sorta di ribaltamento dei ruoli. Stando ai commenti dei lettori di giornale, sembra che i cacciatori siano i buoni, mentre gli animalisti che vorrebbero togliere loro il giocattolo prediletto siano i cattivi. Basta che il soggetto paghi le tasse e diventa tutto legittimo. Tutto viene autorizzato, purché si paghi l’obolo allo Stato. Pagando fior di quattrini, il seguace di Diana si sente legittimato a proseguire la sua infame attività, si autogiustifica e allontana da sé ogni fastidioso dubbio in merito all’eticità del suo comportamento.
Dal mio punto di vista, i cacciatori sono individui amorali. Come siano diventati così è facilmente intuibile. Gli ingredienti sono: grassa ignoranza, maschilismo ottuso e sfrenato, abitudini inveterate, mancanza di alternative e di stimoli culturali, spirito di corpo rigido e, soprattutto, un contesto sociale monolitico.
S’immagini un abitante maschio adulto della Val Trompia, in provincia di Brescia, la patria delle industrie armiere. Tutti i giovani, figli di cacciatori da generazioni, aspirano a prendere la licenza di caccia allo scoccare dei diciotto anni. Non c’è un parente, un cugino, uno zio o un vicino di casa, che non vada a cacciare, e magari anche a mettere i famigerati, nonché vietati, archetti per catturare pettirossi. Un individuo del genere, che lavora in fabbrica tutta la settimana, che considera la Gazzetta dello sport il non plus ultra della cultura, che passa ore e ore davanti alla televisione a bearsi di trasmissioni insulse, che vota per un partito xenofobo come la Lega Nord e che considera un disonore non calcare le orme paterne, si direbbe condannato a seguire la stessa strada dei padri. Sarebbe impossibile per lui svincolarsi da tale destino.
Un tale individuo, se si fosse trovato a Longarone il primo maggio scorso, davanti alla fiera dove si teneva l’annuale festa dei cacciapescatori, e avesse sentito le urla e gli insulti degli animalisti rivolti alle due categorie di “fruitori” della natura, non avrebbe potuto fare a meno di pensare che cacciatori e pescatori sono nel giusto, mentre gli animalisti sbagliano.
E una tale conclusione sarebbe la più moderata a cui potrebbe giungere. Di sicuro penserebbe cose ben peggiori riguardo a quel gruppo di…esaltati che vorrebbero togliergli la sua passione preferita: l’uccisione sadica degli animali. Ma lui sarebbe coinvolto emotivamente, nei suoi giudizi, perché fa parte della categoria.
Una persona esterna, invece, che non sia né cacciatore né animalista, dovrebbe cercare di arrivare a un giudizio obiettivo e pensare che, finché lo Stato glielo permette, i cacciatori sono autorizzati a cacciare. Purtroppo difficilmente un osservatore esterno si renderebbe conto che se lo Stato permette la caccia agli animali è perché trova giusto il principio che sia lecito dare la caccia a qualcuno, magari un talebano barbuto che si nasconde nelle grotte dell’Afghanistan, o un arabo che odia i crociati in quel territorio che un tempo si chiamava Iraq e che oggi non è altro che un cumulo di macerie.
Forse avrebbe anche difficoltà, un simile imparziale osservatore, a rendersi conto che lo Stato, gli oppositori, li elimina fisicamente o nel migliore dei casi li manganella nelle strade durante le manifestazioni. E’ lo stesso Stato che mette le bombe sui treni, gli aerei, le stazioni, le banche e le piazze. E allora, se quell’osservatore esterno alla caccia e all’animalismo, si ricorda tutto questo, forse capisce che il problema è molto più vasto e con le tasse ricavate dai cacciatori, dai fabbricanti di armi e con le stragi che restano regolarmente impunite, il cerchio si chiude. E’ lo Stato il problema, non tanto i coccolati e vezzeggiati sparatori della domenica. In Italia e nel resto dell’Occidente è così, in Madagascar non ancora. Ma non è detto che ci si arrivi.
Freeanimals

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