Lo scandalo non è tanto che piazzino piattaforme petrolifere nel Mediterraneo. Non è tanto che le piazzino, ad esempio su una delle tante bocche vulcaniche di un massiccio complesso sottomarino: il regno di Empedocle, l'Etna marino, il gigante sommerso che fa ancora tremare i fondali.
Non è tanto che, malgrado le promesse sul Canale di Sicilia della pseudoministra Prestigiacomo,
sarebbero più di cento i permessi di ricerca di idrocarburi richiesti o vigenti nel Mediterraneo. Alcuni concessi a un tiro di schioppo da sabbie dorate e banchi corallini.
Quel che si legge in un articolo di La Repubblica Palermo (non meritava l'attenzione nazionale) lascia a bocca aperta per il dato nudo e crudo, e più volte sottolineato, delle irrisorie royalties che chiede lo Stato italiano a chi trivella nel nostro territorio. Roba che neanche i più affamati e oppressi staterelli dell'Africa nera: appena il 4%.
Uno dei motivi della guerra alla Libia, cosa su cui ho pochi dubbi, sono le royalties principesche che pretende lo Stato libico dalle compagnie straniere (qui il bi e il ba). L'85% non è poco, immaginate voi come piangono per la rapina. Ma anche Russia e Norvegia non scherzano, con l'80%, e il Canada con il 50. Ma si sa, "da noi è diverso", noi siamo destinati a stare ginocchioni col cappello in mano davanti a chiunque. Riporta ancora l'articolo:
A pagina 7 del rapporto annuale della Cygam (società petrolifera con interessi nell'Adriatico) si parla del nostro paese come il "migliore per l'estrazione di petrolio off-shore", sottolineando la totale "assenza di restrizioni e limiti al rimpatrio dei profitti".
Col Canale di Sicilia, ammesso che accettiamo il rischio delle trivelle, potremmo estinguere il 25% del debito pubblico italiano. Invece no, invece sempre cornuti e mazziati.
Ma forse è solo una saggia precauzione. Sia mai che, se osassimo chiedere di più, a qualcuno venga in mente di bombardarci.Anzi: potremmo bombardarci da soli, basta accendere i motori ad Aviano.
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