LA COSTA DEI PESCATORI VEZO
(da Speciale Madagascar i Quaderni di Berenice)
Quando, nell’estate del 1986, ricevetti una telefonata, con la quale mi veniva richiesta la disponibilità per assumere la responsabilità scientifica di un progetto per l’aiuto alla pesca artigianale nel Faritany di Tuléar in Madagascar, chiesi un giorno di tempo per rispondere.
Immediatamente dopo, esaminai con cura cartine e documenti della mia biblioteca, tentando di capire di quale angolo di quella enorme isola si trattasse: era il grande sud, che sulla mappa appariva quasi sprovvisto di vie di comunicazione. Un’ulteriore telefonata: un mese per sistemare i lavori in corso in Italia, presso il mio istituto di ricerca a Messine poi via, di nuovo in Africa dove ero cresciuto.
In effetti con una buona dose di incoscienza, avevo accettato uno dei lavori più affascinanti che io abbia fatto sinora. Si tratta di fornire alla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri uno strumento-quadro per programmare eventuali aiuti al settore della pesca artigianale in una delle zone teoricamente più depresse del Paese ma, anche, quella con le maggiori prospettive di sviluppo.
Certamente, le mie precedenti esperienze africane e l’assoluta predisposizione a coinvolgermi in culture diverse, con il massimo rispetto per le stesse, mi hanno fatto programmare ed eseguire questo lavoro in maniera tale da ottenere risultati interessanti.
Quando sono arrivato per la prima volta ad Antananarivo, sull’altopiano malgascio, era un caldo pomeriggio d’agosto del 1986 e la prima che mi colpì fu l’atmosfera che mi circondava e gli atteggiamenti della gente.
L’atmosfera del Madagascar è “magica”: è fatta di sensazioni forti, di odori, di colori e di suoni, ma è l’insieme che la rende diversa dalle tante situazioni similari che si hanno in vari punti del continente africano.
È l’isola continente, nel suo essere tale, pur nel suo gigantismo, a svolgere un ruolo chiave, racchiudendo quest’atmosfera tra i mari che la circondano. Le specie animali e vegetali che la abitano ed i forti contrasti del suo paesaggio non fanno altro che accrescere le sensazioni.
La gente, poi, è incredibile: i malgasci, strana mescolanza di almeno 18 etnie locali e di un numero imprecisato di apporti genetici stranieri, ha una vitalità ed una gentilezza difficilmente riscontrabili in altri popoli. Gli sguardi intensi e vivaci, hanno nei bambini una espressione di felicità e curiosità incredibili.
Eppure, la maggior parte dei malgasci ha una vita non facile e l’economia del paese è una delle più povere e disastrate del mondo, nonostante il Madagascar non sia assolutamente povero di risorse naturali.
Qui, infatti, la natura è stata creativa e generosa: c’erano foreste immense e ricche di specie vegetali ed animali, mancano completamente gli animali feroci , ci sono essenze arboree preziose (quali il teak, il palissandro, l’ebano e il legno di ferro) la frutta ha una varietà cospicua ed è saporitissima, verdure e cereali richiedono tanto lavoro, ma crescono bene, gli zebù sono presenti ovunque e hanno carni gustose, il terreno è ricco di minerali e di giacimenti di pietre preziose e semi-preziose, il Canale di Monzambico nasconde giacimenti di petrolio, le acque che circondalo l’isola sono ricche di pesci e di crostacei , solcate da capidogli, balene e delfini.
Molte tra le specie animali e vegetali che vivono nell’isola-continente sono endemiche ed esclusive ed alcune hanno forme bizzarre: l’Ave-Aye, il lemure notturno dal grande dito, ne è il simbolo più rappresentativo. Tra le 12 specie di baobab conosciute, ben 10 sono tipiche del Madagascar, mentre lemuri e camaleonti hanno qui la loro terra ideale.
Eppure, il Madagascar aveva ed ha una economia disastrata, che lo pone tra gli ultimi paesi al mondo in termini di reddito. I pirati prima, le grandi potenze poi, i regimi corrotti e collegati ad interessi stranieri più recentemente, hanno fatto sì che questa isola ricchissima accumulasse un’enormità di problemi, dove quelli ambientali non sono tra gli ultimi.
Ben l’80% della foresta primaria originale è ormai scomparsa, scoprendo il suolo e rendendolo improduttivo dopo qualche anno,: le risaie producono un riso di buona qualità ma costituiscono un luogo ideale per le zanzare ed il Madagascar ha tutti i ceppi di plasmodio conosciuti, anche i più letali; i parassiti sono diffusissimi, così come molte malattie tropicali, portando l’aspettativa di vita, allora sotto i 27 anni.
Ecco, tutto questo insieme mi avvolge completamente, quel lontano giorno del 1986.
Guidavo una missione composta da un ingegnere(Giorgio) e da un logistico (Giuliano), quest’ultimo molto esperto di paesi difficili. Avevamo scelto di non abitare in albergo, ma di affittare un piano di una palazzina nel centro di Antananarivo, di proprietà di un inglese un po’ matto (Mike Swatton), a pochi passi dal palazzo presidenziale, per sentirci a casa e per compenetrarci meglio nella realtà locale. Arrivammo lì che era già tardo pomeriggio e l’accoglimento del personale di servizio (tantissimi !) ci fece dimenticare il lungo viaggio.
Pian piano iniziammo a predisporre la missione: grazie a Mike, superammo infiniti ostacoli ministeriali, fatti spesso di burocrazia apparentemente complessa.
Ci richiesero una quantità inimmaginabile di foto-tessera: ne servivano otto per ogni permesso o qualunque documento e penso che ce ne siamo ancora mucchi delle mie in chissà quanti uffici pubblici malgasci.
L’Ambasciatore italiano ci accolse familiarmente, così come le funzionarie dell’Ambasciata, gentili e carine: eravamo un gruppo un po’ atipico e squinternato tanto che una di loro ci prestava spesso la sua jeep con targa diplomatica, per i nostri giri serali cittadini.
Nell’affitto della casa era prevista anche una vecchia jeep Toyota Land Cruise passo lungo, serie anni 50, di colore arancio scuro, con il tetto bianco: tutti la conoscevano a Tanà e diventò la nostra compagna fedele di tanti giorni e notti in città.
Con molta pazienza, dopo aver ottenuto montagne di permessi e l’appoggio della Direzione Generale delle Acque e delle Foreste, organizzammo la spedizione sul terreno che doveva esplorare in dettaglio l’intera costa del FARITANY DI TULEAR.
Una mattina alle primissime luci dell’alba, iniziammo la nostra lunga avventura: avevamo una jeep Toyota Land Cruise passo lungo, nuova, e con aria condizionata, seguita da un camioncino 4x4 Kia, entrambe cariche di carburante, tende, attrezzature e viveri in quantità sufficiente per oltre 45 giorni. L’equipaggio era formato, oltre a Giuliano, Giorgio e me, da un personaggio incredibile , il cuoco (Papa), un vecchio malgascio sopravvissuto a se stesso, altissimo, magro ieratico e dalla risata contagiosa , un autista portoghese, certamente figlio di parenti di pirati ed un secondo autista malgascio.
Decidemmo di iniziare dalla parte più a nord del Faritany, ponendo una prima tappa a Morondava, sul canale di Monzambico, alla foce del fiume omonimo. Costeggiando il massiccio dell’Ankaratra (2642 m), iniziammo a percorrere l’altopiano in direzione sud, passando per Ambatolampy, cittadina famosa per le cascate e, soprattutto, per i gamberi di fiume e le rane, dirigendoci poi per Antsirabe, la vecchia residenza del re. Da qui, seguimmo la strada verso est, iniziando la lunga discesa verso la costa.
L’altipiano malgascio è un susseguirsi di boschetti e di risaie, di alti alberi e vestigia di una foresta che c’era, con rilievi ricoperti di terra rossa, spesso solcata ferocemente dall’acqua che da un aspetto rugoso al terreno. La abitazioni sono particolari, spesso a più piani, fatte di mattoni crudi e rivestiti di terra rossa, con piccole finestre e tetti di paglia. Qualcuno ha sostituito la paglia con la lamiera ondulata: ne fanno un punto d’orgoglio, ma la casa non respira più. La gente ha abiti colorati, spesso con copricapo piccoli, che qualche volta ricordano quelli andini. La musica non è rara: si sentono flauti e strumenti a corda, ma anche piccoli tamburi. Sono nenie struggenti e dolci, che si sposano benissimo con l’ambiente e che danno la misura del modo di vivere di questa gente.
Ad un certo punto, passiamo accanto ad una sorta di processione, fatta di gente che balla e che suona, vestita con colori allegri, ma alcuni trasportano un corpo avvolto in teli: si tratta di una cerimonia animistica tipica del Madagascar, che consiste nel disseppellire il congiunto defunto, cambiare i teli che lo avvolgono e portarlo in giro per il villaggio, per tenerlo al corrente delle novità, una cerimonia che si conclude solitamente con il sacrificio di uno zebù, mangiato da tutto il villaggio.
Proseguiamo sulla strada, sorpassando camion Mercedes che un tempo erano di colore verde scuro, carichi oltre ogni possibile immaginazione, nascosti da cortine fumogene che vengono dagli scappamenti esausti.
Nella discesa verso la costa, passiamo sul lungo fiume Mania, laddove questo si congiunge con il Tsiribihina, dando luogo ad un corso ampio e ricco d’acqua con larghe pozze ove si concentrano uccelli acquatici ed anfibi. Prima di arrivare a Morondava, attraversiamo vaste distese di alberi isolati e di palme, suggestivi nella luce del tramonto.
Morondava è un porto importante per la comunità Vezo, i pescatori nomadi del sud del Madagascar: qui c’è un cantiere navale, ove si costruiscono barche a vela, con uno o due alberi, per il trasporto delle merci sul piccolo cabotaggio e, in prossimità del cantiere, c’è anche una grande cella frigorifera, gestita allora da una piccola società franco-malgascia, dove viene accumulato e smistato il pesce portato dalle piroghe.
Lungo la riva destra della foce del fiume Morondava c’è il villaggio dei pescatori Vezo, con le loro capanne, le loro attività e i loro mastri d’ascia.
Qui vengono costruite le famose piroghe: ci sono quelle Monoxile, scavate in un unico tronco, lunghe, strette e filanti, atte a contenere da uno a due pescatori, con loro corpi leggeri ed atletici. Vengono utilizzate per la pesca costiera, sia con reti da posta che con lenze a mano, ma anche lungo i corsi d’acqua più calmi e nelle lagune. Manovrarle richiede doti di equilibrio notevoli e devono sperare di non avere mai problemi. All’epoca una piroga del genere, ben fatta e con un remo, costava l’incredibile cifra di circa 5 dollari. Ma le piroghe più belle sono quelle tradizionali a bilanciere, ove si concentrano secoli di sapere marinaresco. Su uno scafo monoxile di base, vengono poi aggiunte delle tavole da murata, alle quali si aggancia, con un complesso sistema di legature ed incastri, il pesantissimo bilanciere, fatto in legno massiccio e duro. Al centro della piroga si colloca una strana tavola a cinque fori, nei quali vengono posti i due pali che sorreggono la vela. Le manovre si attuano cambiando la posizione dei due “alberi” tra i fori. La vela è spesso una semplice “lamba”, il telo di cotone multiuso tipico dell’abbigliamento malgascio: serve da pareo per le donne, per trattenere al corpo i bimbi più piccoli, per trasportare merci ed oggetti, come coperta leggera, e, anche, come vela.
Queste piroghe sono caratteristiche dei pescatori Vezo: si vedono filare veloci lungo la costa o al largo, con le piccole vele. Quelle di dimensioni minori sono utilizzate per la pesca, altre più grandi per il trasporto del pesce dai villaggi alle zone di concentrazione del pescato, quelle molto grandi servono da trasporto merci o per le occasioni in cui l’intero villaggio decide di spostarsi, inseguendo i pesci lungo le loro rotte.
L’attività del villaggio Vezo di Morondava è quella tipica, con le piroghe che prendono il largo alle prime luci del giorno ed i pescatori che rientrano nel pomeriggio con il loro carico di pesce, che viene poi trasportato dalle donne. I grossi pesci vengono portati in equilibrio sulla testa, talvolta con un seguito di bimbi festanti.
All’epoca Morondava aveva due alberghi, uno fatto di bungalow tra le palme, gestito da un francese (dove noi alloggiammo, per via dell’ottimo cibo, e l’altro, il Grand Hotel (!!!!), gestito dall’inglese, che ci ospitava a Tanà. Questo albergo era tipicamente coloniale, in legno e con arredi tipici malgasci, ma il suo confort era più che discutibile, così come le frequentazioni: l’ampia hall era affollata di giovanissime donne, talvolta avvolte nei loro coloratissimi lambauani dentro strettissime T-shirt di cotone, souvenir di precedenti “amici” europei. L’atmosfera era allegra, seppure ricoperta da un manto di umida decadenza, nella penombra costante, rotta dal lento roteare delle pale del ventilatore a soffitto.
Questo primo contatto con la comunità Vezo ci introdusse immediatamente nel loro mondo, fatto di conoscenza di mare e delle specie, di credenze e paure, di lunghe giornate solitarie in mare e da notti intorno al fuoco. Importanti e preziose per il nostro lavoro furono le chiacchierate, tramite il nostro interprete, con il presidente dei pescatori del villaggio e con i mastri d’ascia, persone che conoscevano in dettaglio la vita anche delle comunità vicine.
Questo metodo d’indagine si rivelò essere il migliore: per tutta la durata del viaggio continuammo a chiedere informazioni ai pescatori, soprattutto in merito ai villaggi vicini, in modo tale da sovrapporre le informazioni ed i dati e confrontarli con i rilievi diretti.
Da Morondava decidemmo di spostarci subito verso nord. Dapprima in jeep, verso Belo Tsiribihina, una cittadina piccola e tranquilla, posta alla foce del fiume omonimo. In effetti, però, la foce nell’ultimo tratto diviene un ampio delta, ricco di piante e uccelli acquatici, tra i quali aironi e garzette la fanno da padroni, ma anche gli ibis sono abbastanza frequenti. Il villaggio è pulitissimo, con gruppi di maiali in libertà che provvedono ai bisogni di nettezza urbana, eliminando qualsiasi tipo di rifiuto. Allora c’era un piccolo albergo dimesso, con un bar e un ristorante non più in funzione, delizioso nel suo stile coloniale in legno e muratura, con elementi di preziosità artistica piuttosto rari da quelle parti ed un vasto cortile interno. La gente è ospitale e tranquilla, la frutta abbondante e profumata, le papaye raccontano poesie di gusto, i granchi abbondano, ma abbondano anche le zanzare che, sul far del crepuscolo, assumono comportamenti tipici delle squadre d’assalto. Gli effetti, purtroppo, si vedono, data l’ampia diffusione della malaria.
La strada che collega Belo a Morondava ha una foresta secondaria a fusto alto, piuttosto “secca”, ma gli alberi brulicano di vita, mentre i lemuri Tsifaka riposano tranquilli tra i rami o saltano come molle da un albero all’altro, leggeri quasi fossero fatti di piume ed elegantissimi nella loro livrea candida e con il volto circondato da peli colorati.
Tornati a Morondava, decidemmo di risalire la costa in una zona dove non esistevano piste praticabili e, quindi, la piroga era l’unico mezzo possibile.
Con una lunga navigazione, arrivammo in prossimità della foce del Manambolo, dove un improvviso fortunale ci costrinse a fermarci in un piccolo villaggio stagionale di nomadi Vezo, posto lungo una spiaggia surreale. Qui la bassa marea schiudeva alla vista uno spettacolo che non avrei mai più rivisto:un fondale di sabbie e lamelle di mica , che riflettevano la luce del sole come uno specchio, in modo abbagliante. La gente del villaggio, poverissimo, ci accolse con estrema gentilezza e curiosità, mentre i bimbi ci saltellavano intorno, curiosi e spaventati. Restammo al villaggio due giorni, dormendo nella migliore capanna, coprendoci con vele indurite dalla salsedine e condividendo con i pescatori e le loro famiglie, un caffé fatto con acqua salmastra, dove le zanzare affogavano lente, ma che al mattino, ci sembrava quello buono del bar sotto casa (cosa è capace di fare la nostra mente!). I pescatori del villaggio affidavano il pescato di gamberetti alle mogli, che provvedevano a spanderlo sulle sabbie caldissime della parte alta della spiaggia. Qui, in questo che io chiamai “ il campo dei gamberi, i piccoli crostacei si essiccavano in fretta e, dopo qualche giorno, venivano recuperati setacciando al vento la sabbia finissima. Altrove, vicino alle piroghe, c’era una sorta di grande stenditoio, con appesi pesci ad essiccare, tenuti aperti da piccoli pezzi di ramoscelli.
In effetti questo era il modo migliore per rendere trasportabile il pesce e i crostacei, dato che, una volta essiccati, potevano essere portati ovunque nel paese, senza bisogno di ulteriori accorgimenti di conservazione. L’economia del troc, in questa piccola comunità, era basata sullo scambio di questi prodotti, dai quali ricavavano anatre, attrezzi da pesca e vestiario.
Quando il vento e il mare ritornarono calmi, riprendemmo la via del sud per tornare a Morondava e ricordo ancora l’emozione di vedere tutti gli abitanti del villaggio, uomini e donne, circondati da tanti bambini festanti, schierati lungo la spiaggia, spesso con l’acqua sino alla vita, che ci salutavano quasi come si saluta un parente: “celoma”, carissimi amici del mare, spero che la vostra vita scorra dolce come l’acqua del mare tra la sabbia.
A Morondava, intanto, il nostro equipaggio aveva completato le provvigioni, rimpinguate anche con anatre e galline vive. Insieme a Giuliano prendemmo la decisione di non seguire necessariamente la pista principale ma di tentare di seguire il profilo della costa, in modo tale da poter raggiungere tutti i villaggi di pescatori. Gli autisti non erano per nulla contenti, poiché immaginavano le difficoltà e gli ostacoli di un percorso spesso inesistente: il segnale più brutto fu quando tornarono alle auto con la faccia cupa, dopo aver comprato una quantità spropositata di pezze per le camere d’aria, dicendoci che sicuramente non sarebbero state sufficienti!
L’unico sereno e allegro era Papa, il cuoco, felice di poter vedere una parte del suo Paese che lo incuriosiva: era una sorta di monumento vivente e così sarebbe quasi diventato una leggenda! Il suo volto ieratico era illuminato da uno sguardo acuto e gioioso, pieno di curiosità: era lui che incitava tutti gli altri, lui che ci avrebbe accudito e coccolato con i suoi manicaretti improvvisati nei posti più impensabili.
Da questo momento in poi, sino a Tulear, tutto sarebbe stato all’insegna dell’improvvisazione organizzata! La pista che si diparte da Morondava è affascinante in molti tratti, tra i giganteschi baobab (ADANSONIA GRANDIDIERI) che si slanciano verso il cielo. I saggi chiamano il baobab “il grande padre della foresta” e narrano che un giorno, tanti secoli or sono, fosse un albero splendido ed enorme, con una grande chioma rigogliosa. La sua bellezza gli faceva dichiarare sfrontatamente di esser l’albero più bello e questo fece irritare Dio che, in preda all’ira, lo estirpò piantandolo sottosopra: secondo la leggenda, è proprio questa la leggenda del baobab!
Lungo il percorso, se ne trovano di enormi, con un tronco di svariati metri di diametro, mentre altri si abbracciano in modo inconsueto, dando luogo a forme strane.
Le piste sono dure, difficili, pericolose, solitamente solitarie. Talvolta, però, si incrociano pick-up Peugeot stracarichi di viaggiatori: erano un pericolo per sé e per gli altri, anche se i guidatori avevano l’abilità dei funamboli.
Ankevo è stato uno dei primi villaggi incontrati, pulito e ordinato, con le sue capanne e le sue piroghe, su una spiaggia biancastra racchiusa da basse rocce. La pista per Belo, invece scompare presto in una vasta zona di sabbie frammiste a mangrovie, impossibile da percorrere con le alte maree. Quando la bassa marea, invece fa ritirare le acque, ecco comparire migliaia di granchi violinisti, timidi e sfacciati nello stesso tempo, che rendono il terreno brulicante. Belo ha anche delle piccole saline, importanti per l’economia e la salute del Madagascar.
Proseguendo per Antoba, gli insabbiamenti sono sempre più frequenti e le forature iniziano a diventare quasi costanti. I panorami sono belli ed inconsueti, dai colori forti e con tanti spunti per fotografie. L’arrivo in ogni villaggio di pescatori è circondato da una curiosità notevole: in alcuni posti avevano visto un bianco oltre vent’anni prima, quindi il nostro passaggio fa notizia.
Prima di partire dall’Italia, mi ero posto il problema di cosa portare in omaggio nei vari villaggi, sapendo che si trattava di aree dove mancava quasi tutto. La mia filosofia di vita mi ha sempre imposto il massimo rispetto della dignità di ogni persona ed un umile approccio con le culture locali. Decisi, quindi, di portare con me una serie di regali utili: per i capi villaggio o per i presidenti delle comunità di pescatori avevo una scorta imponente di coltellini multiuso cinesi, una copia praticamente identica di quelli svizzeri, più famosi e molto più costosi; per la comunità, invece, avevo preparato delle buste di plastica, con dentro un buon assortimento di ami e diverse matasse di vario spessore di filo da lenza. Inoltre, pacchi e pacchi di matite e di penne biro, più varie confezioni di block-notes.
La scelta fatta si dimostrò vincente e valida: i capi villaggio ed i presidenti dei pescatori erano fierissimi del loro coltellino multifunzione, mentre i pescatori apparivano entusiasti per il dono degli ami e delle lenze. Quando ebbi modo di ritornare in qualche villaggio, dopo qualche anno, mi spiegarono che quel piccolo dono aveva significato un aumento notevole della capacità economica del villaggio e, in alcuni casi, la comunità ne aveva tratto vantaggi impensabili.
Infatti (ma di questo non ero assolutamente a conoscenza prima del mio lungo girovagare), i Vezo non hanno materia prima per costruirsi attrezzi da pesca ( ad eccezione di qualche nassa) e, quindi sono costretti ad acquistarli o ad inventarseli con materiale di fortuna.
Per acquistarli, normalmente si rivolgono a commercianti locali che sono spesso collegati alle poche società commerciali che raccolgono il pesce e lo veicolano all’interno del Madagascar o anche all’estero. In questo caso, le attrezzature vengono date ai pescatori a fronte di un impegno a fornire il pescato in modo esclusivo.
Per “crearli”, invece, attendono la buona sorte. Particolarmente apprezzati sono i vecchi pneumatici radiali, talvolta trovati semi-distrutti lungo la pista, qualche volta portati dalle violenti mareggiate e provenienti da chissà dove. Il pneumatico viene immediatamente aggredito e si iniziano a recuperare i fili di materiale sintetico che costituiscono la struttura del radiale. Questi, quindi, sono utilizzati per annodare una rete, normalmente di piccole dimensioni. I galleggianti sono sostituita da piccoli pezzi di legno leggero, mentre i piombi sono sostituite da conchiglie, spesso piccoli Turbo. Talvolta, per assicurare alla rete una colorazione scura, si utilizza il lattice di una pianta grassa, che viene spalmato sui fili e che,quando si asciuga, assume una colorazione bruno nerastra, I nostri pescatori, abituati a strumenti sofisticati, inorridirebbero davanti ad una rete del genere, ma loro non sono riusciti ad inventarsi niente di meglio.
Per gli ami, invece, occorre aspettare che il mare o la sorte facciano arrivare un pezzo di legno con i chiodi. In tal caso, questi vengono lavorati dal pescatori, ribattendoli sino a trasformarli in ami di varie dimensioni.
Sinceramente sono condizioni inimmaginabili per noi.
A causa della impossibilità materiale di proseguire lungo la costa, decidemmo di addentrarci all’interno, per sostare a Manja, dove arrivammo in tarda serata. Qui c’era una capanna con la scritta “Hotely”, dove ci installammo, con tutto il nostro seguito. Ma quale fu la sorpresa degli abitanti quanto Papa, vanesio come un tacchino, decise di prepararci la cena con in testa il suo cappello bianco da cuoco! In pochi minuti, gran parte degli abitanti si radunarono fuori dall’Hotely, la cui proprietaria si mostrò imbarazzatissima: non aveva compreso l’importanza dei suoi ospiti! Dopo cena, a me toccò un comodo letto (dopo tante notti sotto la tenda), nella cipollaia dell’Hotely, una sorta di capanna divisa in due, dove venivano ammonticchiate cataste di cipolle odorose. Fu una notte indimenticabile, l’ideale per un entomologo, soprattutto scuotendo gli scarponi al mattino prima di indossarli. La pioggia di grandi scarafaggi che ne venne fuori mi fece comprendere che il luogo era molto frequentato e apprezzato, anche da questo tipo di ospiti!
L’attraversamento del fiume Mangoky fu difficilissimo, dato che le rive sabbiose erano una sorta di barriere insormontabili. I nostri due mezzi si tiravano fuori dalla sabbia a vicenda, ma talvolta era necessario farlo a forza di braccia: ci vollero diverse ore, prima di arrivare alla chiatta che, uno alla volta, li traghetto dall’altra parte, mentre Giuliano, Giorgio ed io attraversammo il fiume a nuoto, per abbassare la temperatura corporea e per eliminare la sabbia che le ruote dei mezzi interrati ci avevano spruzzato ovunque.
Dopo Andronopasy, Ambohimbo, Ankarona, nel delta del Mangoky, Morombe ci accolse con una nebbia degna della Bassa Padana, con il mare in tempesta, in un ambiente quasi surreale e ovattato. Qui la barriera corallina ha subito gli assalti dei raccoglitori di conchiglie e di oloturie, le prime dirette ai mercati italiani, e le seconde a quelli asiatici. Faceva un po’ pena vederla così spoglia, tra le acque poco trasparenti per via degli apporti dei fiumi, ma era ancora un sito pieno di pesci ed i Vezo sembravano apprezzarlo moltissimo.
Si attraversavano ambienti estremamente vari, passando dai baobab agli alberi bottiglia (talvolta ricoperti da centinai di piccoli pappagalli verdi), dagli alberi del viaggiatore alla foresta spinosa di Didieracee, dai mangrovieti della costa alle distese di piante acquatiche dei grandi delta, dalle palme da cocco delle grandi spiagge ai piccoli fiori tra le rocce e le sabbie. Spettacoli naturalistici indimenticabili, racchiusi tra albe dai colori intensi e tramonti tropicali che andavano dall’arancio al rosso al viola, in un caleidoscopio affascinante. Talvolta, le piste (ma chiamarle così è un complimento!) erano scavate da una pioggia improvvisa e si trasformavano in sentieri sconnessi, altre volte occorreva fare attenzione alle grandi tartarughe radiate (una specie minacciata e protetta), che decidevano per la via più comoda che era proprio il solco della pista: passarci sopra avrebbe significato forse la loro morte e certamente il capovolgimento del nostro mezzo.
E la gente dei vari villaggi, dove talvolta vedevi dei visi intensi e solcati dalla salsedine dei pescatori, ma dove potevi incrociare lo sguardo dolcissimo e languido di una splendida fanciulla distesa all’ombra della sua capanna, in prossimità della spiaggia. Avevamo riscoperto l’enorme importanza dell’albero del villaggio, spesso un gigantesco mango, sotto il quale, all’ombra, un maestro teneva le sue lezioni ai bimbi o dove gli anziani (ma erano poco più che miei coetanei, purtroppo!) tenevano il consiglio.
Foca, Ambavadoca, Befandela, Ambohitsabo, Solary, Tsifoka, Monomio, Andavo, Ifaty, i villaggi scorrevano uno dietro l’altro, come i giorni e le notti. In ogni posto un incontro, lunghi scambi di informazioni, sorrisi e gentilezze, , ma per me si trattava di un mondo che mi si apriva dinanzi, ricco di cultura e saggezza marinara.
Poi finalmente Tulear, la cittadina attraversata dal Tropico del Capricorno, con i suoi venditori di conchiglie intorno alla piazza della strada principale, i suoi pousse-pousse, la sua vita quasi frenetica, dopo tanti giorni di piste e silenzio. Finalmente un albergo, una doccia, un letto con lenzuola. Nel giardino un Lemur Catta con cui giocare festosamente, corrompendolo con le piccole banane dolci, mentre saltava veloce ovunque, per mostrarsi vezzosamente con la coda ad anelli bianchi e neri.
Tulear in effetti, è la capitale dei Vezo, sede di una Università importante e di una storica Stazione di biologia Marina, dove con l’aiuto di esperti della FAO e di università europee, si studiano i complessi meccanismi della ricchissima barriera corallina che si trova a sud della città, una delle più affascinanti dell’Oceano Indiano, particolarmente ricca di specie per via della particolare idrografia del canale di Monzambico.
Dopo esserci ritemprati, avere acquistato qualche nuova camera d’aria per le ruote dei nostri mezzi di trasporto e dopo una serie interminabile di incontri ufficiali con le autorità locali e con i colleghi della FAO, ricominciamo il cammino lungo la strada dell’estremo sud, spesso tra le foreste spinose dotate di un fascino estremo. Una notte ad esempio abbiamo la ventura di sentire un po’ di pioggia sulle nostre tende, niente di particolare. Ma la mattina, una volta arrivata la luce dell’alba, intorno a noi si aprì un mondo incantato, dove le secche piante spinose della sera prima, si erano trasformate in verdissimi esseri pieni di foglioline sottili. Al termine della giornata soleggiata, molte specie avevano anche dei fiori, generalmente piccoli e vistosi. Leggendo sui libri è una cosa, ma vedere questo spettacolo dal vero si ha la stessa impressione di trovarsi in un luogo magico e incantato.
Anakao è un importante villaggio Vezo subito a sud di Tuléar, al di là dell’ampia foce del fiume Onilahy, nella Baia di St.Augustin. Già nel 1986 c’era una piccola attività turistica, gestita da un francese piuttosto noto nella zona, che poi morì tragicamente e romanzescamente qualche anno dopo, chiudendo in modo coerente la sua travagliata esistenza. Lui gestiva le piroghe che portavano i turisti da Tuléar ad Anakao ed un piccolo lodge con capanne per turisti sulla spiaggia, ma era ovunque famoso per la sua importante collezione di conchiglie, dovuta all’opera incessante dei suoi amici pescatori.
Le isolette a sud di Anakao hanno ancora i resti di qualche tomba dei pirati, che frequentavano queste acque soprattutto nel ‘700, ma sono altrettanto note per l’elevata qualità delle vongole, comunissime sui bassi fondali che le circondano verso terra.
Da queste parti sopravvivono le vecchie tradizioni Vezo e non è infrequente vedere una fila di piroghe, dalla quale si propaga una musica ritmata, che accompagna la sposa ed i suoi familiari al villaggio dello sposo, per il rito e la festa.
La strada statale passa all’interno, troppo per le nostre necessità e, quindi decidiamo di tentare la pista costiera, dove esiste. La pista del sud è molto difficile e raggiungere Beheloko, Anja Belitsaka ed Itampolo ci fa comprendere che il tratto che ci aspetta ci riserverà molte sorprese. Qui i villaggi sono sempre più brulli, le capanne risentono della temperatura spesso elevata, ma la gente è sempre cordiale. Intorno ai villaggi, spesso, ci sono piccoli cimiteri, pieni di steli lignei scolpiti, una caratteristica del sud. Vederli significa fare un tuffo nella vita del passato, dato che ogni stele rappresenta alcune delle scene più peculiari della vita del defunto.
La caccia delle grandi tartarughe marine (generalmente la tartaruga verde) è praticata con alcune precauzioni. Anche i Vezo comprendono che non si possono sterminare le tartarughe marine, malgrado per alcuni villaggi questa si una delle poche opportunità di mangiare carne. Per questo alcuni adottano una tecnica, che può apparire crudele a noi occidentali urbanizzati, ma che ha un profondo senso di rispetto per gli animali e gli abitanti del villaggio. Quando una tartaruga viene catturata e uccisa, la carne viene distribuita tra gli abitanti e dura per diversi giorni. Se, per caso, fosse possibile catturare una tartaruga nello stesso periodo, questa verrebbe trattenuta sulla spiaggia, viva, all’ombra di una vela, per vari giorni, costituendo una riserva di cibo importante. I bimbi, in tal caso, provvedono a bagnarla periodicamente, e le regole non scritte dei pescatori dicono che non è consentito catturare più di una tartaruga per volta, oltre quella che sta per essere consumata.
Arrivare ad Androka è un’impresa, soprattutto quando le piogge ingrossano il Linta, il più importante fiume del sud. Il guado è impraticabile ed abbiamo due alternative: fermarci per un numero indefinito di giorni, aspettando tempi migliori, o tentare di trovare un guado a monte, fuori pista. Scegliamo la seconda opzione, ma sconsiglierei a chiunque di seguire la nostra strada. Passiamo da un villaggio tipico del sud malgascio a contrafforti rocciosi densi di vegetazione. I nostri mezzi sobbalzano sulle pietre e siamo costretti a fermarci più volte, per riparare le gomme, squarciate in più punti. Ormai, siamo diventati velocissimi esperti e smontare un pneumatico, ripararlo e rimontarlo per noi non rappresenta più incognite. Infine, utilizzando torrenti secchi e sconnessi come se fossero autostrade e con l’indispensabile aiuto di un poverissimo pastore, vestito solo di un perizoma, che non aveva mai visto un’automobile e che ne era, al tempo stesso, terrorizzato e incuriosito, riuscimmo a guadare il Linta, con l’acqua allo sportello.
Ma il profondo sud del Madagascar aveva in serbo per noi una fantastica sorpresa, che ci avrebbe ricompensato di qualunque sforzo. Un giorno passando da un villaggio all’altro e parlando con i pescatori, qualcuno disse che esisteva un piccolissimo villaggio di pescatori di aragoste, che loro con superiorità, definivano “selvaggi” e “primitivi”. La cosa ci incuriosì e così iniziammo a chieder informazioni sempre più precise. Finalmente, qualcuno riuscì ad indicarci la via per raggiungere il villaggio misterioso, non segnato sulle carte.
Dopo varie ore di percorso su un tratto di costa periodicamente sommerso dal mare, dove non esisteva alcuna traccia di pneumatico di passaggio, raggiungiamo un cimitero poverissimo, con steli chiaramente molto vecchie e consumate dal tempo. Proseguiamo con estrema difficoltà e rischiamo anche che il nostro pick-up ci abbandoni, essendo precipitato in una buca piuttosto profonda.
Riusciamo con molta fatica a recuperarlo e procediamo0 verso la duna costiera. Dietro di essa, tra il mare ed un’altra fascia dunale, finalmente scorgiamo il villaggio. Ma è vuoto: gli abitanti, impauriti si sono nascosti nella vegetazione del bush, ne intravediamo qualcuno. Il villaggio è incredibile: le capanne sono fatte di sterpi ammonticchiati, mentre le aperture sono coperte con carapace di tartarughe verdi.
Le tartarughe sembrano essere le uniche fornitrici di utensili del villaggio: sono catini e bacinelle, palette e contenitori, ma anche feticci sui pali. Dopo aver fotografato tutto ed aver cercato invano di far comprendere agli abitanti che avevamo intenzioni tranquille, l’unica decisione possibile era quella di andarcene, restituendo a querlla gentil proprio mondo inviolato.
Nell’andar via, Giorgio, Giuliano ed io decidemmo di non rivelare mai il nome del villaggio e la sua collocazione geografica, al fine di proteggere la privacy di quegli abitanti particolari, che evidentemente non avevano contatti con la modernità. Ognuno di noi ha rispettato il patto e, da quel che mi risulta, il villaggio non è ancora sulle carte. Significa che nessuno ha più disturbato i suoi abitanti e spero che possano continuare a lungo nel loro isolamento, anche se temo che possa durare poco.
La costa del sud ha il suo apice rappresentativo qualche decina di chilometri prima di Betanty (Faux cap), un capo che è la parte più meridionale del Madagascar. Qui, di fronte all’Oceano, ci sono alte dune fossili, dove si trovano i resti delle uova del grandissimo uccello fossile Aepyrnis maximus. Le sabbie compatte sono ripide sul mare cristallino, dove alcuni ragazzi si bagnano. Splendida, anche la zona di Italy, un bel villaggio di pescatori in una baia dai colori incredibili, circondata da vegetazione, poco prima di arrivare a Tolanaro (Fort Dauphin). Finalmente un’altra cittadina ed un altro albergo, di proprietà del francese che gestisce la riserva del Berenty, famosa per i lemuri. Anche la ragazza dell’albergo è famosa per la sua bellezza europea, occhi color del mare e capelli biondissimi, che contrasta con le tante bellezze locali. Le strade di Fort Dauphin sono affollate, la gente commercia frutta, verdura, pesci e carne, in un “baillame” di abiti colorati. I fili elettrici tra i pali della lucerono ricoperti da migliaia di grandi ragnatele, creati da ragni dalle zampe lunghissime e dal corpo colorato. La baia in cui si trova Fort Dauphin è splendida, ma il mare è spesso mosso, agitato dai venti che percorrono la zona. Qui c’è la pesca delle aragoste, fatta con le nasse, che dà una buona varietà di specie: quelle verdi, che vivono nelle scogliere più superficiali, poco apprezzate; quelle rosse, di rocce più profonde, piuttosto gustose, e quelle nere, di zone ancora più profonde, da gran gourmet.
A nord di Tolanaro, la vegetazione è completamente diversa. Tutto è lussureggiante e verde, segno evidente della maggiore quantità di pioggia che caratterizza la zona. Ci spingiamo sulla strada costiera, superando Mamantenina. Qui è necessario attraversare un gran numero di corsi d’acqua, tra le rive colme di vegetazione. I traghetti sono delle chiatte, che si muovono lungo un cavo, talvolta a forza di braccia.
Qui, alla foce dei fiumi, vive ancora il dugongo, il grande sirenide erbivoro che sta progressivamente scomparendo dall’Oceano Indiano, cacciato ed ucciso per le sue carni saporite e per l’olio raffinatissimo che si ricava dal suo grasso. Cerchiamo di vederne uno, ma è assolutamente impossibile, anche se in diversi villaggi ci dicono di conoscerlo e di vederne qualche esemplare di tanto in tanto.
Lungo la costa del sud est del Madagascar, i villaggi sono poverissimi e l’abbondanza di piogge rende ancora più evidente la condizione di indigenza. I più poveri sono i villaggi dei carbonai, povera gente che vive vendendo o scambiando i resti delle foreste bruciate con qualcosa da mangiare o da indossare. Questi villaggi hanno capanne piccolissime ed ovunque si nota un velo di caligine. I villaggi più “benestanti” sono quelli dei pescatori di aragoste, dove, però, il tasso di alcolismo è elevato, dato che i commercianti (almeno allora!) usavano ricompensarli con il rhum, invece che con i soldi.
Al confine nord del Faritany decidiamo di rientrare a Fort Dauphin. Qui incontriamo due ragazze emiliane piuttosto mal messe, senza quattrini e disperate per una serie di disavventure e decidiamo di dar loro un passaggio sui nostri mezzi, mentre noi torniamo a Tanà con l’aereo, dopo circa un mese e mezzo di jeep.
Dopo quella ed altre due missioni, riesco a redigere un rapporto dettagliatissimo sui pestatori del Faritany di Tulèar, sui mezzi a loro disposizione, sulle loro attività e le catture e, grazie ad alcuni economisti, anche sulle loro necessità. Una copia dei dati li regalai ai colleghi della FAO che operano in Madagascar: per loro si tratta di un regalo importante, dato che, malgrado sforzi di anni, non erano mai riusciti a fare una analisi così dettagliata, per via delle difficoltà e del costo.
Purtroppo, erano gli anni della Cooperazione perversa, quando i Paesi donatori donavano soprattutto a sé stessi: il mio programma fu “abbellito” con ponti, strade, centrali elettriche, ed un sacco di altri inutili orpelli, tanto da divenire enorme ed ingestibile. Con l’Ambasciatore italiano dell’epoca, con un biologo della World Bank e con i colleghi della FAO e del PNUD tentammo di far finanziare almeno quei piccoli programmi che riguardavano sul serio i pescatori artigianali, cose semplici ma vitali, che avrebbero potuto contribuire veramente al loro sviluppo, nel rispetto delle tradizioni e della loro autonomia culturale. Ma così non è stato: o tutto o niente e, mancando i soldi per coprire tutto (o magari perché il Madagascar non era strategico!), niente. Da allora, sono tornato tante volte in Madagascar, per vari incarichi. Insieme all’Acquario di Genova, abbiamo stretto un accordo di cooperazione scientifica con l’Università di Antananarivo, nel cui ambito stiamo riproducendo con successo numerose specie animali protette, al fine di evitarne l’estinzione.
Ho girato il Paese in lungo ed in largo, vedendo isole, laghi, monti, cascate, foreste, animali e soprattutto, la gente. Ho parlato con Ministri, Direttori Generali, Ambasciatori, Rettori, contadini e pescatori, ritrovando ovunque contatti umani forti e sinceri.
Il Madagascar, purtroppo, ha avuto un problema dietro l’altro nell’indifferenza generale: deforestazione selvaggia, tifoni devastanti, malaria, epidemie ed anche la peste, con una recentissima lotta per il potere presidenziale, che ha causato molte vittime tra la povera gente.
Il Madagascar è un paese magico, ma tutte le magie hanno bisogno di particolari condizioni per continuare a ripetersi. Non sarebbe una responsabilità di noi Paesi ricchi fare in modo che la magia possa continuare, aiutando questa gente meravigliosa a ritrovare se stessa ed i suoi valori, che nulla hanno da invidiare ai nostri?
F I N E
Dott. Antonio Di Natale, responsabile scientifico dell'Acquario di Genova
Antonio Di Natale è responsabile scientifico dell'Acquario di Genova, Direttore dell'Istituto di Ricerca Aquastudio e vice-Presidente del Comitato scientifico della Pesca della C.E., oltre che componente di numerosi comitati scientifici di Enti internazionali e nazionali. E' autore di circa 200 pubblicazioni sulla gestione delle risorse e su specie marine ed ha esperienze in decine di Paesi. Si occupa da anni di conservazione e gestione delle risorse acquatiche e tutela dell'ambiente.
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