giovedì 19 maggio 2011

Marco Marcelli, professore di endocrinologia Chiara Gabbi, medico ricercatore

al Baylor College of Medicine di Houston (Usa)


Marco Marcelli

Anno di emigrazione: 1986.
Città italiana in cui è nato: Perugia.
Città americana in cui lavora: Houston.
Istituzione: Baylor College of Medicine.
Posizione: professore.
Tipo di lavoro: medico (endocrinologo) e ricercatore.

Che cosa ti ha fatto emigrare dall’Italia?
Sin dai primi anni della facoltà di medicina ho capito che volevo fare la carriera universitaria. Le opportunità erano minime, e ai tempi c’era una fila infinita di pretendenti. Dopo un po’ ho capito che se volevo realizzare i miei sogni in Italia, avrei dovuto aspettare come minimo fino ai quarant’anni, e al quel punto ho deciso di andarmene.

Come si vive facendo il medico/ricercatore all’estero?
Professionalmente si vive bene. Si è immersi in una forte cultura scientifica, c’è la sensazione che non esista un limite a quello che si può fare. Si è circondati da esperti in qualsiasi ramo della medicina (per coloro che praticano la professione medica), o da esperti di qualsiasi ramo delle scienze di base, per quelli che sono interessati ad una carriera di laboratorio. La grande maggioranza delle persone sono molto gentili e disponibili a insegnarti qualcosa o a collaborare con te. Bisogna realizzare che dal momento in cui si raggiunge una posizione di faculty, che sarebbe dall’assistant professor in su, uno deve portare fondi esterni per poter svolgere la propria ricerca. Il dogma è che bisogna pubblicare, in altre parole essere scientificamente prolifici, per poi competere per questi fondi esterni (grants). Rimanere in accademia con successo non è quindi facile, bisogna avere passione, determinazione, ottimismo, e saperci fare con la gente. Al di fuori dell’ambiente di lavoro si vive bene, gli americani sono per la gran parte brave persone. Da espatriati si vive meglio in grandi aree metropolitane piuttosto che in piccoli centri rurali.

Ritorneresti in Italia? Se sì, credi che potresti fare lo stesso lavoro?
Credo che sia passato troppo tempo per tornare in maniera definitiva. E poi, a questo punto della mia carriera, sarebbe difficile trovare un lavoro equivalente in Italia. Un altro punto importante –forse il più importante- è che i miei figli sono americani. Vorrei chiarire che in Italia vengo spesso, e ogni volta mi trovo come se non fossi mai partito. Ma per varie ragioni, non solo di tipo professionale, so che negli anni a venire la mia base sarà negli USA. Anche se in Italia ci tornerò sempre, almeno fino a quando mi sarà fisicamente possibile.

Cosa pensi del mondo accademico italiano?
Alcuni concetti generali.
In Italia si va all’università praticamente senza spendere una lira, e questo è un grande merito della nostra nazione. Ho speso per l’educazione scolastica – scolastica non universitaria- dei miei due figli centinaia di migliaia di dollari. Sono quindi convinto che avere una ottima scuola e università a disposizione del pubblico rappresenta una grande servizio per i cittadini di un paese. Bisogna sperare che i nostri governanti se ne rendano conto, e non vengano attratti da chimere come quella di favorire l’educazione privata rispetto a quella pubblica. Il mondo accademico italiano è più o meno all’ottavo-nono posto nel mondo come gettito scientifico, questo vuol dire che da noi c’è molto talento.
L’università (italiana e non) deve adeguarsi al fatto che viviamo nel ventunesimo secolo. Per la realizzazione di questo salto di qualità credo che quelli che hanno passato anni a studiare fuori, che hanno sviluppato un immenso patrimonio di esperienze scientifiche ed amministrative in posti stranieri di alto livello, possono essere di grande aiuto.
Se lavorassi in Italia… mi vengono in mente tre importanti idee da sviluppare. Primo, istituire una infrastruttura che faciliti la creazione di aziende che si originano da idee sviluppate nel mondo accademico, e forme di alleanza con capitali che provengono dal mondo privato per favorirne lo sviluppo. Secondo, creare le condizioni culturali affinché i super ricchi lascino fondi alla ricerca scientifica. In altre parole, vorrei far capire a molti che essere il più ricco del cimitero sotto casa non è vantaggioso per nessuno. Negli USA una delle organizzazioni filantropiche che ha contribuito maggiormente alla creazione di ricchezza scientifica e l’HHMI (Howard Hughes Medical Institute). Il suo fondatore, Howard Hughes che fra l’altro era di Houston, è morto nel 1975, ma il suo lascito non finirà mai di aiutare il mondo scientifico. Terzo, vorrei che ogni università abbia una struttura per identificare le persone di talento e che le guidi in modo che possano esprimere tutte le loro potenzialità.

Cosa consigli ai giovani ricercatori che sono all’estero?
Prima di tutto consiglio a tutti i giovani interessati alla carriera accademica che non sono all’estero di farsi una esperienza all’estero. Uno dei prerequisiti per fare l’universitario nel 2010 dovrebbe essere di aver passato almeno tre anni in un centro accademico straniero di eccellenza. Se uno non se la sente, allora dovrebbe cambiare mestiere. Ai giovani ricercatori che sono all’estero consiglio di avere grandi sogni, di crederci, e di lavorare in maniera intelligente ed efficiente per realizzarli. Una volta che quel sogno si è realizzato, bisogna partire con un altro sogno. Se c’è una cosa che ho imparato con il tempo e l’esperienza, è che non esiste un sogno che sia troppo grande, e che i sogni ti danno ottimismo, determinazione e valori positivi.

Chiara Gabbi
Anno di emigrazione: 2006.
Città italiana in cui è nata: Reggio Emilia.
Città Americana in cui lavora: Houston.
Istituzione: University of Houston .
Posizione: Research associate.
Tipo di lavoro: medico ricercatore.

Che cosa ti ha fatto emigrare dall’Italia?
Il bisogno di cercare risposte con una ricerca ad alto livello che purtroppo non poteva essere raggiunto in Italia.

Come si vive facendo il medico/ricercatore all’estero?
Si vive con tanta nostalgia, ma anche con molte soddisfazioni. La qualità del lavoro credo dipenda molto dal paese ospitante. Sono all’estero da quattro anni, divisi tra Stoccolma e Houston. La Svezia vanta una favolosa e invidiabile organizzazione e un sistema sociale che facilitano estremamente la vita professionale e privata specialmente del ricercatore. Gli Stati Uniti mancano di una rete di tutela in questo senso. Il lavoro è la priorità numero uno e come tale è dove abbondano le maggiori opportunità in termini di risorse sia di crescita professionale sia finanziarie.

Ci ritorneresti in Italia? Se sì, credi che potresti fare lo stesso lavoro?
Sì, ritornerei in Italia, ma a patto di poter costruire opportunità e supporti per raggiungere il livello professionale più vicino possibile all’attuale.

Cosa pensi del mondo accademico italiano?
Sono profondamente grata al mondo accademico italiano per la mia formazione che credo sia stata a ottimi livelli dal corso di laurea in medicina fino alla specializzazione. Abbiamo una tradizione medica italiana di cui possiamo davvero vantarci. Ma purtroppo, in tanti casi, rimane solo una brillante tradizione. Abbiamo bisogno d’innovazione! Innovazione che credo solo la ricerca possa dare. Purtroppo la ricerca accademica italiana è percorsa da numerose – e ben note – ferite (inutile elencarle), dalla carenza di fondi alla scarsa meritocrazia. Urge innovazione. Innovazione della ricerca e dell’università che credo possa avvenire solo grazie a noi, italiani, ricercatori all’estero.
Penso all’enorme bagaglio di esperienza e conoscenza che abbiamo ricevuto dalle istituzioni straniere e credo davvero che sia una sorta di “dovere morale” metterlo a disposizione per la crescita del nostro Paese. Come? Immagino due vie. Bisognerebbe dare una sorta di istituzionalizzazione alla presenza dei numerosissimi ricercatori italiani all’estero. Dobbiamo avere un ponte diretto non solo con il ministero degli Esteri (che in molti casi esiste già, grazie ad ambasciate e consolati) ma anche e soprattutto con il ministero dell’Università’ e della Ricerca. La nostra esperienza ha un valore inestimabile per la riforma dell’università. Inoltre, credo che più che al “ri-entro” dei cervelli si debba lavorare ad un ‘ri-circolo” dei cervelli. Mi piace pensare a circuiti istituzionalizzati in cui a fianco di una salda posizione all’estero venga offerta la possibilità di un ricircolo in Italia con ricerca o attività clinica o docenza nelle nostre università di origine. Un’opportunità importante per condividere sul campo italiano anni di lavoro ed esperienza all’estero.

Fammi un paragone fra la ricerca in Svezia e negli USA. Tre cose che ti piacciono di più della Svezia e tre che ti piacciono di più degli USA.
Il mondo svedese vanta un’efficientissima organizzazione non solo accademica (1) ma anche sociale (2), di ritmi lavorativi abbastanza elastici (3) che risultano estremamente preziosi soprattutto per chi ha famiglia.
Negli USA abbondano le opportunità di collaborazione scientifica (1), di crescita professionale (2) e di finanziamenti (3) per supportare le ricerche soprattutto grazie ai privati.

1 commento:

  1. proprio come in italia sia nel settore pubblico che privato!

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