mercoledì 4 maggio 2011

Morti senza giustizia

I numeri a volte non restituiscono la gravità del problema ma in questo caso sono veramente impressionanti. Nelle prime due settimane dall’inizio del flusso di richiedenti asilo dalla Libia – il 26 marzo – oltre 800 persone mancano all’appello, sono partite ma sembrerebbe che non siano mai arrivate sull’altra sponda del Mediterraneo. Una persona su cinque non ce l’ha fatta, una vera roulette russa giocata dai trafficanti sulla pelle di chi fugge dalla violenza e dalla guerra.
Circa 250 rifugiati sono morti nel naufragio avvenuto il 6 aprile a 39 miglia da Lampedusa, mentre altre tre imbarcazioni con a bordo rispettivamente 330, 68 e 160 persone hanno segnalato la loro presenza attraverso telefonate ai parenti ma non risulta che siano arrivati. Inoltre decine di corpi sono stati ritrovati sulle spiagge di Tripoli, restituiti dalle correnti e è difficile stabilire se questi morti vanno ad aggiungersi o debbano essere sottratti ai numeri sopra menzionati.
E intanto negli ultimi giorni ci sono i parenti dei dispersi che risiedono in diversi paesi europei – Italia, Finlandia, Norvegia, UK – che continuando ad ignorare la sorte dei loro cari e, in preda all’angoscia, vogliono andare a Lampedusa a cercarli, portando dietro le foto da mostrare per l’identificazione.
Ma neanche questo servirà a molto. Infatti le autorità a cui si sono rivolti li hanno dissuasi poiché i cadaveri avvistati dagli elicotteri non sono stati recuperati e dunque non sarà possibile né identificare queste persone né tanto meno dare loro una degna sepoltura.

Lutto nel Mediterraneo
Gli occhi sono atterriti, i volti mesti e provati. Non bastano le coperte termiche e la cura degli operatori umanitari a dare sollievo ai 50 superstiti del naufragio avvenuto a 39 miglia da Lampedusa in cui circa 220 persone sono state inghiottite dalle onde. Tra questi almeno 50 donne e 6 bambini. Gli uomini della Guardia Costiera sopraggiunti a soccorrerli, a causa delle condizioni del mare, non sono riusciti a trasferirli nelle motovedette e la barca in poco tempo si è capovolta. Tutti sono stati scaraventati in acqua e ognuno ha cercato un appiglio, un pezzo di legno, una valigia, qualcosa di galleggiante a cui aggrapparsi per resistere alla forza del mare.
Dopo aver visto la morte in faccia i 50 sopravvissuti sono ancora sotto shock e non hanno la forza di parlare. Alcuni di loro in pochi minuti hanno visto dileguarsi gli affetti più cari: una figlia di due anni, un fratello, una moglie incinta.
Erano salpati tre giorni prima da Sabrata, località libica tra Tripoli e Zwara, in circa 270 di varia nazionalità: somali, ivoriani, eritrei, nigeriani, ganesi. Volevano lasciare l’insicurezza e la paura in Libia. Alcuni di loro abitavano a Tripoli da qualche anno ma la loro vita già difficile, con lo scoppio della violenza era diventata un incubo poiché essendo africani venivano associati ai mercenari reclutati dal regime e questo li ha esposti a violenze e abusi da parte della gente inferocita. Hanno deciso di partire dalla Libia per arrivare in un posto sicuro e invece hanno trovato la morte in mare.
Un Mediterraneo pieno di navi commerciali e militari. Ma come è possibile che nessuno si sia accorto di una carretta stracolma di gente. Eppure si sa che una barca sovraccarica di persone, con il mare grosso è comunque a rischio, specialmente quando imbarca acqua come in questo caso. Ore prima, quando le onde cominciavano a farsi grandi, i rifugiati avevano anche chiamato i parenti per lanciare l’allarme, consapevoli del pericolo. Ma neanche questo è servito.
“I cadaveri galleggiano a gruppi sullo specchio d’acqua e questo consente di paragonarne le dimensioni. Purtroppo ci sono anche dei bambini”, ha affermato il pilota dell’elicottero delle Guardia di Finanza rientrando da una perlustrazione. Lutto nel Mediterraneo.

Attenzione alle parole
In questi giorni il dibattito pubblico sugli arrivi via mare a Lampedusa è più che mai acceso e confuso. Nei giornali, come nelle trasmissioni televisive e radiofoniche sia i conduttori che gli ospiti – spesso esponenti delle istituzioni e ministri – per definire coloro che sbarcano sulle coste italiane alternano indistintamente parole come profughi, clandestini, extracomunitari, rifugiati.
Il termine che va per la maggiore, il più inflazionato e utilizzato è senza dubbio “clandestino” che porta sempre con sé qualcosa di negativo, un carico di pregiudizio. Clandestino è una persona che si deve nascondere, che è pericolosa: usare questo termine significa bollare le persone che arrivano in Italia prima di sapere chi sono.
Vengono chiamati “clandestini” i migranti irregolari che arrivano via mare per motivi economici, per cercare un lavoro e mandare i soldi a casa. Ma anche chi sulla carretta c’è dovuto saltare per mettersi in salvo e arrivare in un posto sicuro, i richiedenti asilo.
Quando si scappa dal proprio paese perchè in fuga dalla guerra, dalla violenza, dalla violazione dei diritti umani e dalla persecuzione, lo si fa con ogni mezzo. Perchè non si ha scelta e magari neanche i documenti. Spesso si è costretti a rischiare la propria vita. Queste persone, per il fatto che arrivano via mare, in Italia vengono subito etichettate “clandestini”.
Giuridicamente esistono i migranti irregolari e i richiedenti asilo.
Usare la parola “clandestino” non è un’ esemplificazione. Significa contribuire ad alimentare la paura, l’ansia e avvelenare il pozzo poco a poco. Perchè il linguaggio condiziona fortemente la percezione del fenomeno.
Oggi l’opinione pubblica invece di mettersi nella condizione di favorire l’accoglienza, si sente messa di fronte a un’invasione di persone minacciose. E questo stato d’animo – come stiamo vedendo in questi giorni in varie parti del Paese – ha delle ripercussioni negative anche sull’organizzazione stessa dei piani di intervento. In molti si oppongono e manifestano contro la tendopoli vicino casa. Vedendo tutto ciò viene da chiedersi dove sia finita la solidarietà italiana.
Nel 1999 durante la crisi del Kosovo tutti volevano fare qualcosa, o inviare aiuti e doni o organizzare l’accoglienza sul territorio italiano, una vera gara di solidarietà tra enti locali, associazioni e circoli. Oggi tutto ciò sembra solo un lontano ricordo. Forse è giunta l’occasione di recuperare le nostre migliori tradizioni e di riappropriarci di quei valori di umanità e generosità che nel tempo hanno sempre caratterizzato la cultura italiana

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